Schengen compie 21 anni ma non se la passa tanto bene
Compie 21 anni il trattato sulla libera circolazione delle persone che coinvolge 26 paesi, oggi più che mai a rischio tra terrorismo e migrazioni di massa.
Di Paolo Ardu
Con l'abolizione del controllo sui confini il 26 marzo di 21 anni fa nasceva l'area Schengen formata da ben 26 Paesi, di cui 22 membri dell’Unione europea e quattro non membri (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). Una zona di libera circolazione in cui si era deciso di adottare una politica comune sui “visti” per viaggiare all'interno dei propri confini, abolendo l'utilizzo dei passaporti e di diversi altri controlli richiesti, e di rafforzare i controlli esterni. Dal 1995 questa incluse Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo, Spagna e Portogallo. Due anni dopo anche Italia (26 ottobre) e Austria (1 dicembre 1997) firmarono il protocollo di adesione all'area che prevedeva una progressiva rimozione dei vincoli e dei controlli ai confini dei Paesi aderenti.
Il 26 marzo del 2000 concluse il suo processo di adesione la Grecia e dall'anno seguente l'area si allargò ai Paesi nordici (Svezia, Norvegia e Danimarca, Finlandia e Islanda) e, infine, il 21 dicembre 2007 aderirono Polonia, Slovenia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia e Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania). Si apriva così un'epoca di mobilità interna per 400 milioni di cittadini europei che era ritenuta parte fondamentale di un lungo processo di integrazione iniziato il 14 giugno 1985 con la firma dell'accordo omonimo sottoscritto da Francia, Germania e Benelux (Belgio-Olanda-Lussemburgo) nella piccola città lussemburghese di Schengen, sul confine con la Germania.
Gli stati fanno da sé e lo spirito di Schengen vacilla: Una libertà, quella di circolazione, che da circa un anno è messa sotto pressione dalla sempre costante crisi migratoria e, più di recente, dalla minaccia terroristica in Europa. Ma non solo, è in panne anche il processo di allargamento. Da una parte il mancato adeguamento del governo agli standard richiesti dall'Ue e, dall'altra, veti contrapposti nel consensus del Consiglio europeo hanno oggi bloccato l'iter di accesso di Romania e Bulgaria. Se ad est l'Ungheria ha eretto una cortina di ferro al confine tra Croazia e Serbia, nel cuore del Continente europeo l'Olanda controlla a campione i propri confini e la Francia, dopo aver chiuso più volte il confine italiano di Ventimiglia per respingere i migranti, ha ripristinato i controlli sul traffico aereo, sia interno che esterno, dopo gli attentati terroristici di Parigi. A gennaio Danimarca e Svezia hanno deciso di riprendere “con effetto immediato” i controlli al confine con la Germania che, a sua volta, nel settembre scorso aveva reintrodotto temporaneamente quelli frontalieri con l’Austria. Vienna poi, dopo aver ripristinato i controlli dei documenti al confine con l'Ungheria presidiando con 2.200 militari la frontiera magiara e portando alle stazioni di polizia i migranti arrivati a piedi, ha ora blindato il confine italiano del Brennero, dove passano 10 milioni di veicoli e 40 milioni di tonnellate di merci ogni anno. Calcoli elettorali e nazionalismo, condivisi anche con Ungheria, Slovacchia, Polonia e Repubblica Ceca, stanno animando un fronte contrario alla cancelliera tedesca Angela Merkel, percepita come nemica comune.
I costi del ritorno ai controlli e la fossa scavata con le proprie mani: Per ora Schengen resiste ma i controlli temporanei dei confini, oltre a ostacolare la libera circolazione, secondo la Commissione europea, hanno anche dei costi economici annuali, concentrati su alcune regioni e attualmente stimati tra i 5 e 18 miliardi di euro (l'equivalente dello 0,05 e 0,13 del Pil). Spagna o Repubblica Ceca registrerebbero più di 200 milioni di euro di “costi addizionali”, che salirebbero a oltre 500 milioni per Polonia, Olanda o Germania, in particolare legati al trasporto delle merci su strada. Il solo controllo dei confini, poi, operato su 1,7 milioni di lavoratori transfrontalieri porterebbe a perdite dell'economia europea stimate tra 1,3 e 5,2 miliardi di euro, così come a maggiori costi amministrativi pagati dai governi per l'aumento di militari e forze di polizia (tra 0,6 e 5,8 miliardi di euro). Inoltre nel turismo crollerebbero i pernottamenti stimate in almeno 13 milioni di presenze in meno e con perdite per 1,2 miliardi di euro.
Eppure istituzioni europee e governi sembrano ignorare tutto questo, anzi. "Sotto il ricatto dei Paesi membri che minacciano di chiudere, o hanno già chiuso, le frontiere interne, e il rifiuto degli stessi, e altri, ad accettare la redistribuzione concordata prima della grande crisi dell’estate scorsa, l’Ue ha deciso di esternalizzare – contract out, si direbbe in gergo aziendale – il controllo alla Turchia, allo stesso tempo eliminando ogni distinzione tra migranti e rifugiati."
Un accordo Ue-Turchia che la sociologa Chiara Saraceno definisce "immorale" e che lascerà "ai propri Paesi più periferici (...) Grecia innanzitutto, ma potenzialmente anche all’Italia, la responsabilità di effettuare quelli che impropriamente vengono definiti rimpatri (impossibili). "Vere e proprie deportazioni in un Paese che non è il loro, non li vuole e non ha le risorse per integrarli" mettendo "a rischio i diritti di libertà e anche dei più elementari diritti civili". Un'Europa che, per il giornalista Gerhard Mumelter, "si scava la fossa con le proprie mani".