Rotta sbagliata sulla “Vittor Pisani” - 9
- Scritto da Eliogabalo
Il nono episodio di un racconto inedito di Eliogabalo pubblicato a puntate su IteNovas.com
…i miei fratelli, a turno, giocavano sulla groppa sudata di quella bestia stanca.” Salvatore disse che, in quell’istante, a un passo dalla morte, provò sensazioni che pensava ormai di aver dimenticato. Sentì nuovamente l’aroma della sua pelle intrisa di sudore e polvere, e il fastidioso strisciare contro di essa, dei pesanti pantaloni di fustagno che irritavano la cute sotto le cosce. Sentì di nuovo il vento scendere dalle montagne a nord, portatore di freschi profumi di bosco. Non più l’irritante Ghibli secco del Sahara, ma la brezza arricchita da fragranze di lavanda ed elicriso. Lo ascoltò, come fece in gioventù, sussurrare le parole antiche del suo popolo, e lo vide infine accarezzare quei capelli bruni che un tempo soleva sfiorare con tanta passione. In quello stato pseudo-onirico, mentre il corpo si abbandonava al sangue che fluiva prepotente dalle ferite, allungò le mani, e cercò di spostare quella chioma castana, per liberare finalmente un viso che da tempo, ormai, aveva visto di sfuggita nei suoi sogni. Cercò di accarezzarlo, ma risultò difficile essere parte integrante di un delirio pre mortem. Continuò a osservarlo con nostalgia, mentre quella dolce figura pian piano sbiadiva fino a scomparire, lasciando in lui solo parole confuse che prendevano forma nella sua mente.
Ricordò in un attimo il nome da attribuire a quel volto, e subito dopo rammentò una promessa fatta a una donna sotto le stelle, poco prima di partire per diventare uomo per davvero.
La morte, che in quell’occasione pensò con amarezza di aver già vinto la sfida con Salvatore, dovette arretrare dopo essere arrivata a un passo dalla sua anima, dopo un urlo liberatorio colmo di lacrime che riportò un uomo alla vita. Salvatore riprese conoscenza, e sentì subito i dolori lancinanti delle ferite che bruciavano maledettamente a ogni movimento involontario del fisico. Iniziò a respirare con fatica l’aria mefitica che ristagnava dentro quel carro armato, e con il poco di forza che gli rimase in corpo, saltò fuori da quella lamiera crivellata. Poco prima di essere tratto in salvo dai suoi compagni, accorsi subito dopo l’attacco nemico.
“Nessuno può capire cosa successe prima di essermi sentito nuovamente vivo. Nemmeno tu, con tutta la buona volontà, puoi immaginare. Avevo fatto una promessa e non potevo venir meno alla parola data”, disse infine, per spiegare in poche parole quello che provò mentre camminava in equilibrio su un filo sottile tra la vita e la morte. Dopo tutto io, umile narratore, custode improvvisato di un tempo a me sconosciuto, non ho nessun motivo che mi spinga a credere che le cose siano andate in maniera diversa da quello che vi ho appena raccontato, e che lui mi raccontò non troppo tempo fa.
“La mia guerra finalmente era finita”, disse con tono liberatorio. “Fui portato in salvo nelle retrovie dai miei compagni. Pensavano non ce l’avrei fatta, ma dopo le prime cure della notte, le mie condizioni migliorarono notevolmente. Una cosa era chiara: non avrei più potuto combattere. Così che, come i miei più cari amici, abbandonai anche io il terreno africano. Ma al contrario loro, io riuscii ad andare via con anima e corpo ancora legati alla vita. Dopo pochi giorni mi trasportarono in Libia, seguendo i sentieri interminabili delle carovane indigene, e dopo una settimana arrivammo a Tripoli. Una volta là mi fecero imbarcare, insieme a tanti altri feriti, in una nave ospedale diretta in Italia e, tempo cinque giorni, mettemmo finalmente piede in patria.
Durante il viaggio non ebbi l’opportunità di spedire lettere alla mia famiglia, ma ne scrissi tantissime, dove tranquillizzavo tutti sulle mie condizioni di salute, e in alcune, scritte in notti particolarmente accese da un sentimento di tristezza e rabbia, misi a nudo tutte le mie considerazioni più intime. Parlai del dolore provato in tante circostanze e delle ferite che la guerra mi aveva provocato. Ferite nello spirito, che non si sarebbero mai rimarginate. Una volta in Italia mi ricoverarono a Firenze, rimasi lì un mese, e in quel mese ricevetti puntualmente le lettere scritte dai miei cari. In quegli scritti mi spiegarono cosa volle dire vivere la guerra da un'altra prospettiva. Un punto di vista che non conoscevo, ma che ben presto avrei conosciuto, una volta tornato a casa.” Da quelle lettere, Salvatore capì quanto furono difficili quei tempi anche per chi la guerra fu costretto a viverla da spettatore inerme.
Si rese conto di quanto casa sua venne sconquassata da una povertà ancor più grave di quella che fu costretta a vivere in tempi di pace, e di quanto l’assenza di braccia robuste avvezze al lavoro nei campi, rese difficile il sostentamento necessario per scacciare via la fame. L’indigenza ancestrale, quella che ha tenuto a braccetto la Sardegna già da tempi dimenticati, sembrò peggiorare catastroficamente.
Capì quanto la sua terra fosse stata un crocevia di eserciti che, instancabili, si spartirono quel punto strategico del Mediterraneo da cima a fondo. Lesse dei pesanti bombardamenti durati fino all’estate del ‘43 da parte degli Alleati, dei quali sarebbe stato spettatore lui stesso, che distrussero paesi fabbriche, città, porti e ferrovie. La guerra alla fine aveva stravolto il suo giaciglio confortevole. Lo scovò dal suo nascondiglio fatto di roccia, vento e mare, e lo costrinse a piegarsi al cospetto dell’immane violenza.
Durante la degenza nell’ospedale militare di Firenze, si rese conto di quanto la sua assenza avesse gravato sulla condizione precaria della famiglia, e non titubò durante la notte a perdersi in un mare di lacrime, pensando a quanto tutti loro avessero avuto bisogno di lui in quel paradiso costretto a mutarsi d’improvviso in inferno. Tra le righe che Vittoria gli scrisse, capì quanto suo padre fosse invecchiato nel corpo e nello spirito in quel arco di tempo, e di quanto quell’uomo discendente da generazioni di esseri nobili forgiati dalla roccia vulcanica, si fosse sgretolato e ridotto a pulviscolo, che persino una brezza leggera avrebbe potuto disperdere nell’aria. La nostalgia per un figlio destinato a combattere contro chi l’avrebbe voluto uccidere, la povertà e la stanchezza opprimente che la vecchiaia regala a chi lavora in mezzo ai campi, l’avevano reso forse troppo fragile per vincere l’ennesima battaglia che la vita gli aveva imposto di combattere.
Da ciò che gli scrisse la sua amata, evinse quanto fosse difficile per le donne essere tali in un mondo in cui gli uomini guerreggiavano, oppure erano troppo stanchi per continuare a farlo. Ebbe una vaga idea di quanto potesse essere difficile accudire una famiglia nelle vesti di vedove o orfane di figli, e di quanto improvvisamente le preghiere rivolte al buon Dio, d’un tratto, sembrarono aver perso ogni potere mistico. Ma dopo tutto il male raccontato senza esclusione di colpi, Vittoria, si perdeva in sentimentalismi conditi dalle più tenere parole d’amore. Frasi, emozioni e angosce, che per troppo tempo fu costretta a tenere nascoste per paura di poter soffrire qualora il destino, le avesse inferto un colpo mancino privandola del suo uomo.
Quelle lettere scritte con tanta passione, furono la dolce ninna nanna che cullava il sonno tormentato del povero degente. Furono la morfina per i dolori improvvisi che instancabili martoriavano il giovane corpo robusto. Furono il motivo sufficiente per rimettersi in forze al più presto, e tornare da lei, per poterla ammirare sotto la luce della luna, e per poter sentire di nuovo il calore dei suoi abbracci e il dolce profumo della sua pelle. I giorni e le notti, acquisirono un sapore diverso grazie alla consapevolezza che, ben presto, tutto ciò che vagamente ricordava nelle sue fantasie, l’avrebbe potuto rivivere, magari con maggior consapevolezza. Ma si sa come vanno le cose, dietro ogni piacere, si nasconde un insidia pronta a tormentare noi poveri sventurati. Così fu per Salvatore, che ogni notte, dopo aver trovato soddisfazione leggendo le parole di Vittoria, si perdeva in sogni che pian piano, durante il riposo, si macchiavano di sangue, sabbia, e urla di poveri soldati innocenti che morivano sotto il piombo inglese. In quei momenti nemmeno Vittoria avrebbe potuto salvarlo. Così fu al tempo, e così fu fino alla sua morte. Piccoli inconvenienti di chi sopravvive alla violenza dei campi di battaglia.
Quando Salvatore venne dimesso, dopo essere stato congedato con una medaglia al valor militare, l’Italia si trovava in una condizione di impotenza, soggiogata dalla sua subdola alleata.
Il 1943 stava per iniziare e gli italiani continuavano a morire come topi in Africa, nei Balcani e ancora peggio, in Russia. La Germania continuava a tenere sotto un temibile assedio tutta l’Europa, mentre le forze Alleate, con difficoltà, si facevano strada per liberare il mondo dal dominio nazista.
A Parigi le alte sfere della gerarchia nazionalsocialista preparavano la città a diventare la nuova Berlino. A Praga, ripulita meticolosamente da tutti gli ebrei, ormai da tempo si parlava il tedesco. Nei campi fuori Mosca, si potevano intravedere le divisioni Panzer avanzare rapidamente, anche se non incutevano tanto timore, dal momento che l’inverno, il vero alleato dell’esercito russo, stava per arrivare mentre a Londra, si contavano i cadaveri dei civili intrappolati sotto le macerie che, la Luftwaffe aveva prodotto dopo aver distrutto mezza città.
Tutto questo succedeva mentre Salvatore, ormai eroe militare del Regio Esercito, tornava a casa, e mentre l’Italia si preparava per l’8 settembre 1943.
Erano tempi quelli…
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