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Rotta sbagliata sulla “Vittor Pisani” - 8

  • Scritto da Eliogabalo

L'ottavo episodio di un racconto inedito di Eliogabalo pubblicato a puntate su IteNovas.com

...e non passò molto tempo prima di trovare le prime insidie che abilmente si celavano sotto la calda sabbia del deserto al confine con l’Egitto.
Il giovane soldato Bassu e la sua compagnia, avevano il compito di scortare i reparti di fanteria nella lunga gloriosa marcia fino ad Alessandria. Ma le cose non andarono come i grandi generali pronosticarono.

Dopo l’arrivo degli italiani in Africa, gli inglesi rinforzarono i loro avamposti mettendo in crisi una condizione già precaria del regio esercito.
I tedeschi invece avevano già tutto pronto. Loro sì che facevano paura, con le loro armi sofisticate, dieci volte più potenti di quelle italiane. Loro sapevano quello che stavano facendo. Gli italiani invece, non dico che non sapessero cosa fare, ma affermo che quello che facevano, lo facevano male. Di certo non per incompetenza dei soldati. La colpa per la mancata perizia nelle dinamiche militari è meglio imputarla ai comandanti, insigniti di cariche ottenute per aver fatto le prostitute nel nuovo grande partito totalitarista italiano, i quali, imperterriti, continuavano a seguire l’esempio di quell’ufficiale che, nel romanzo di Emilio Lussu viene identificato come generale Leone. E questo è tutto dire. Per non parlare poi della mente geniale che aveva ordito tutto questo, al riparo nella tana del lupo nella vecchia Prussia orientale, con quel non più ragazzo di origini austriache. Ma è inutile continuare con la mia requisitoria sterile, preferisco piuttosto lasciare spazio a quella di Salvatore, che con tono sdegnato continuò nel suo racconto dicendo: “A me e alla mia squadra ci avevano assegnato un giocattolo non un carro armato. Ci avevano dato una pistola calibro 9 che, più che sparare si inceppava, e al posto dei fucili modello 91 in dotazione all’esercito, ci avevano dato un moschetto che sembrava si dovesse rompere in due da un momento all’altro. Non eravamo assolutamente armati come i tedeschi. Loro avevano i panzer e le mitragliatrici potenti. Quelle non si inceppavano, sparavano a raffica e ammazzavano tutto quello che gli capitava a tiro. I tedeschi erano forti e ben nutriti, noi invece no. Molto spesso ci mancava l’acqua e il cibo, per non contare la penuria di carburante e munizioni. Ancora oggi mi chiedo cosa diavolo speravano che facessimo in quelle condizioni. Devo ammettere però che, io e quelli della mia compagnia siamo stati più fortunati rispetto ad altri di reparti differenti, i quali si ritrovarono isolati in mezzo al deserto, senza contatti radio, rintanati in trincee fatiscenti, molti sull’orlo della pazzia. Alcuni soldati della Folgore mi avevano raccontato che avevano trovato, durante una marcia, un nascondiglio fatto di pietra e argilla, dentro il quale vi erano decine e decine di soldati trucidati, distesi in terra ormai sepolti dalla sabbia. Nessuno di loro sapeva della loro esistenza. Nessuno sapeva come fossero finiti in quel posto dimenticato da Dio. Che dire, meno male che avevamo il conforto del duce che allietava le nostre pene.” Disse con tono sarcastico. “ In Africa si moriva veramente, ecco perché dico che i tedeschi avevano ragione a ricordacelo. Comunque, tra le nostre lamentele inutili, un anno in Africa passò, e tra battaglie, ritirate e poche vittorie, riuscimmo ad arrivare in Egitto. Era il 1942. L’anno della svolta nella nostra guerra nel deserto. Persino l’esercito di Rommel sembrò accusare il colpo della superiorità alleata. Il 1942 fu la volta delle battaglie a El Alamein. La fine della nostra campagna d’Africa.”

È paradossale pensare quanto la rovinosa sconfitta inflitta dagli inglesi nei pressi di quella località, sia stata l’occasione in cui, gli alleati capirono che gli italiani, dopotutto, erano molto più temibili di quanto potessero pensare. Ora non voglio perdermi in una disquisizione sciovinistica, volta a esaltare le temerarie caratteristiche dei giovani sudditi savoiardi. Non tanto perché non trovo le parole giuste per farlo, ma fondamentalmente  perché dentro di me non risiede nemmeno un briciolo di senso patriottico. Sarà perché di questi tempi il sentirsi nazionalista viene spesso presentato e confuso con un sentimento intriso di xenofobia e perversione morale. Sarà per la democrazia farlocca che siamo costretti a vivere, o forse è il mio essere sardo, attenuante sufficiente ad accentuare lo sconforto nei confronti di una nazione matrigna, che mi spinge a non avere un forte senso di appartenenza a questa subdola imitazione di stato.

Avrei tanti altri motivi da elencare, ma rischierei di uscire fuori tema. Riuscirei a non dare valore al sentimento di rispetto che provo nei confronti di chi ha dovuto, per scelta oppure no, combattere in nome di qualcosa che, al giorno d’oggi, non ha tanto valore. E non posso di certo nascondere che, le parole del generale Montgomery che descrivevano gli italiani come un popolo di intrepidi, difficile da sconfiggere, fanno uno strano effetto piacevole. Ma erano altri tempi. Persino Salvatore mi disse che loro erano un altro tipo di italiani. Sì, forse non istruiti come lo si può essere adesso, ma di certo migliori di quello che siamo noi ora. Questo sembra essere il classico esempio degli irriducibili nostalgici che esaltano i loro giorni passati, affermando che quelli, erano assolutamente tempi migliori del presente. Beh io non ho nessun metro di giudizio per potermi esprimere in maniera obbiettiva, posso solo dire che i nostri, di certo, non sono tempi dei quali si può avere nostalgia.
Quindi Salvatore può essere inserito senza alcun dubbio nella categoria degli italiani che non esistono più, uno dei tanti che nel luglio del 1942, affrontò gli inglesi nella prima battaglia di El Alamein.

Quando mi parlò di quella battaglia, sono sicuro che non mi raccontò tutto, forse a causa dell’età oppure per qualche dimenticanza ingenua, o forse perché certe cose, anche dopo settant’anni, fanno ancora male, e devono rimanere in un posto nascosto nel proprio animo a consumarsi negli ultimi spasmi di dolore. Sono quasi certo che sia per quest’ultimo motivo. Così mi disse un giorno:
“ Una delle ultime volte che ci siamo visti ti ho detto che non sono mai riuscito a dimenticare il disastro sulla Vittor Pisani. Oggi invece ti dico che non sono mai riuscito a dimenticare quello che fu per me la battaglia in Egitto, quando gli inglesi iniziarono a bombardare le nostre postazioni continuamente. Le bombe cadevano di notte, di giorno, e poi fanteria e corazzati assaltavano le nostre trincee quasi completamente distrutte dalla loro artiglieria. Noi li abbiamo respinti tante volte, non con le armi, ma con la rabbia e la voglia di rimanere vivi. Non l’abbiamo fatto per avere una medaglia o per far sì che Mussolini attraversasse Alessandria, fiero sopra il suo cavallo, ma l’abbiamo fatto perché lo dovevamo a noi stessi. Lo dovevamo a chi era morto il giorno prima, a chi condivideva la sabbia sulla quale la maggior parte delle volte si dormiva. Dovevamo respingere i soldati di Montgomery per far sì che potessimo guardarci in faccia tra noi, sporchi e sorridenti per aver beffato la morte ancora una volta, anche se alla fine non ci siamo riusciti.” Dopo aver sospirato a lungo riprese: “Successivamente a giorni di combattimenti serrati, sembrò essere arrivata la calma. Avevamo ucciso molti inglesi e, allo stesso tempo molti inglesi avevano ucciso tantissimi dei nostri e tutti e due gli eserciti erano stremati. Successe, in quel lasso di tempo, che in una notte apparentemente tranquilla, io e i mie quattro compagni del carro Savoia, coloro che consideravo miei fratelli, insieme ad altri mezzi, costeggiavamo i Giardini del Diavolo.” “Cosa sono i Giardini del Diavolo?” Chiesi io. “ Erano i campi minati, i tedeschi li chiamavano così, e così anche noi dopo essere stati influenzati. Comunque costeggiavamo quei campi, diretti verso la parte orientale del fronte di El Alamein, con l’intento di posizionare i nostri cannoni accanto a quelli tedeschi, sistemati nella parte di terreno priva di mine. Quelle postazioni davano su passaggi tortuosi, ideati da Rommel in persona, per far sì che  gli inglesi  fossero costretti a imbucarli per non saltare in aria sopra le nostre anticarro. Non ricordo bene cosa andò storto, ma ricordo lucidamente il rombo delle bombe inglesi che cadevano proprio sopra di noi. Dalla mia fenditura intravidi il carro a capo della schiera in fiamme, e sentivo le mitragliatrici poste nelle torrette che sparavano a volontà verso il vuoto. Un’istante dopo, una granata colpì il nostro mezzo, e una scarica di proiettili perforanti ridussero a un colabrodo il Savoia. Salvatore Campiello, Guido Pozzi, Andrea Scivari e il tenente Marcello Redenati, i miei fratelli, morirono così, di punto in bianco, senza emettere un gemito. Quello che successe dopo lo sappiamo io e alcune divinità che al tempo non mollarono nemmeno per un’istante la presa su di noi. Ti posso dire solo che mi ferirono gravemente, e che passai la notte in compagnia dei miei compagni dentro quel carro fumante, crivellato di colpi, aspettando che una di quelle divinità di cui ti ho appena parlato, venisse e mi portasse via. Adagiato nella mia postazione, grondante di sangue, riuscì a vedere mio padre togliere il basto al cavallo sull’uscio di casa, mentre...


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