L'incendio nell'oliveto di Grazia Deledda
- Scritto da Effe_E
Questo lavoro della Deledda racconta la storia della famiglia Marini, composta da individui differenti e isolati, ognuno nella propria individualità, che trovano unità nel mito dell'umanità.
Incipit
Dalla scranna antica che il lungo uso aveva sfondato e sbiadito, era ancora lei, la nonna Agostina Marini, quasi ottantenne e impotente a muoversi, che dominava sulla casa e sulla famiglia come una vecchia regina dal trono. Non le mancava neppure lo scettro: una canna pulita che il nipotino più piccolo aveva cura di rinnovare ogni tanto; buona per dare sulle gambe ai ragazzi impertinenti e per scacciare i cani e le galline che penetravano dal cortile; ma sopratutto buona per frugare nel camino, davanti al quale la nonna sedeva in permanenza d’estate e d’inverno, e specialmente per frugarvi quando era sdegnata con qualcuno, cosa che le accadeva spesso.
Perché la canna non si accendesse il figlio Juanniccu le aveva applicato all’estremità un puntale di latta; e quel pomeriggio d’inverno la vecchia signora frugava nella cenere pensando appunto a questo suo figlio Juanniccu.
Era già quasi vecchio anche lui, ma viveva, come aveva sempre vissuto, ancora a carico della famiglia. Non per vizio, ma per indolenza, per abitudine. Le pareva di vederlo seduto accanto a lei, come un bambino incosciente, con gli abiti trasandati, i capelli lunghi sulla nuca fin sul bavero unto della giacca, la barba grigia non rasa da più giorni sulle guancie grasse e molli scavate da solchi di sofferenza indifferente: e lo rimbrottava, al solito, pur sapendo di fare cosa inutile, mentr’egli la fissava con gli occhi distratti, timidi e castanei come quelli di un cervo.
“Eccoti lì, con le mani in tasca e i piedi parati al fuoco, con le scarpe fangose come quelle dei pezzenti vagabondi. E dove sei stato? Sono tre giorni che non ti vedo. Del resto è meglio, che non ti veda. Mi sembri l’immagine vivente dei miei peccati. E chi ti può vedere? Nessuno. Ti si sopporta perché si è cristiani; e basta. Tutti gli altri, della mia famiglia, hanno fatto buona riuscita: tu solo sei come l’ultimo pane andato a male, che nessuno vuole. Hai cinquant’anni e sei lì come un bambino che ne ha tre. Colpa mia, del resto. Eri l’ultimo, quello che non si vuol vedere crescere perché resti un bambino nella casa: e così sei rimasto. La pigrizia ti ha roso le ossa. E non eri stupido: hai anche studiato, ma adesso ti sei dimenticato persino di leggere. Fossi stato almeno vizioso; ti fossi almeno divertito! Neppure a questo sei stato buono. E morta io che farai? Nuora mia e i miei nipoti ti cacceranno via di casa come un vecchio cane.” – Via, via! – disse a voce alta agitando la canna come per scacciare davvero un cane.
Ma la sua stessa voce la svegliò dal cattivo sogno.
Sentì che esagerava. Il piccolo patrimonio del quale la famiglia viveva era suo. E la nuora non possedeva un centesimo. Era una parente povera accolta adolescente in casa per badare ai bambini del figlio maggiore vedovo, del quale, poi, per convenienza, era diventata la seconda moglie.
Morto anche questo figlio maggiore, la vedova e i tre orfani, di cui l’ultimo nato dal secondo matrimonio, s’erano stretti intorno alla nonna come ad una madre comune, e le obbedivano ciecamente, uniti e nutriti tutti da un senso religioso della famiglia; e sopportavano, se non amavano, lo zio, perché convinti che ogni casa deve avere la sua croce.
Del resto egli non dava molestia: passava le giornate fuori, girando di qua e di là per le case dei parenti, e rientrava solo alla notte contentandosi di mangiare in cucina quello che gli lasciavano; poi andava a letto al buio in una stanza sotto il tetto.
Di giorno non lo si vedeva mai. La vecchia madre credette quindi di continuare a sognare nel vederlo in quel momento entrare dalla porta del cortile guardandosi attorno timido e diffidente, e dirigersi rapido a lei. Al solito aveva le mani in tasca e il collo della giacca tirato su per il freddo; ma il viso esprimeva un’insolita animazione.
Attraversò la stanza camminando senza far rumore, come avesse le scarpe rotte; si fermò pesante e tremulo e volse le spalle al camino.
– Oh, – disse in fretta, sottovoce, – sono stato dal parente nostro ricco. La moglie, zia Paschedda Mura, se ne va. All’altro mondo se ne va – aggiunse più forte, facendo dei cenni alla madre che lo guardava, immediatamente turbata dalla notizia. – Sì, se ne va! Stava già poco bene fin dai giorni scorsi, e adesso, gira di qua, gira di là nel cortile e nell’orto, con la sua avarizia e la paura che le venga meno la roba, ecco che s’è presa la polmonite. E se ne va! E se ne va!
Tacque, dopo aver ripetuto le ultime parole quasi con un senso d’irrisione, osservando sul viso della madre l’effetto che produceva la notizia.
La madre infatti era turbata, ma da un confuso senso di gioia.
Pensava ad un progetto di matrimonio vagheggiato da lei, e da tutta la famiglia, fra la nipote Annarosa e Stefano, il figlio laureato di zia Paschedda Mura: solo che questa zia Paschedda si opponeva perché a sua volta desiderava un matrimonio più ricco per il suo Stefano.
Il vento di tramontana di quel rigido inverno spazzava dunque via l’ostacolo.
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"L'incendio nell'oliveto" racconta la storia della famiglia Marini, composta da individui differenti e isolati, ognuno nella propria individualità, che trovano unità nel mito dell'umanità.
I personaggi, l'anziana nonna matriarca, il figlio celibe, i due nipoti, la matrigna, la serva Mikedda e il vicino Taneddu, si muovono agitati da un vento interiore che nasce dalle contrapposte correnti dei loro stessi animi. Il ricco matrimonio fra la giovane nipote dell'anziana Agostina e il giovane e ricco Stefano Mura sembra sfuggire per un attimo alla vecchia donna che tramite quel matrimonio spera di risollevare le sorti della famiglia. Infatti gli sguardi di passione fra Stefano e la matrigna Nina non passano inosservati allo sguardo attento di zio Juanniccu.
Tuttavia, dopo l'incendio dell'unico podere rimasto ai Marini, l'ordine sociale desiderato dalla vecchia patriarca andrà faticosamente a ricomporsi. Una storia come sempre familiare nella quale le tipologie umane si ribellano alla standardizzazione letteraria per ricongiungersi infine con il loro stesso profilo.
Il romanzo fu pubblicato a puntate su La Lettura, il supplemento mensile del Corriere della sera, tra il giugno 1917 e l’aprile 1918, e subito dopo in volume dall’editore Treves. Tra le sillogi di romanzi e novelle della Deledda, solo la più nutrita, quella in cinque volumi curata da Emilio Cecchi per la collezione “Omnibus”, contiene L’incendio nell’oliveto, che non compare invece nelle raccolte curate da Eurialo De Michelis, Natalino Sapegno, Vittorio Spinazzola e Marta Savini.
L’incendio appare quasi escluso anche dalla fortunata circolazione fuori d’Italia dell’opera deleddiana. Risulta infatti tradotto solo in olandese. Questo incerto destino editoriale mostra che, per quanto sia classificato fra i “grandi romanzi” della maturità dell’autrice, l’Incendio ha ricevuto consensi tiepidi e comunque non unanimi: «capolavoro mutilato» è il giudizio di Cecchi.
Maria Grazia Cosima Deledda è nata a Nuoro, penultima di sei figli, in una famiglia benestante, il 27 settembre 1871. E’ stata la seconda donna a vincere il Premio Nobel per la letteratura, nel 1926. Morirà a Roma, all'età di 64 anni, il 15 agosto 1936.
La narrativa della Deledda si basa su forti vicende d'amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità. È stata ipotizzata una somiglianza con il verismo di Giovanni Verga ma, a volte, anche con il decadentismo di Gabriele D'Annunzio, oltre alla scrittura di Lev Nikolaevic Tolstoj e di Honoré de Balzac di cui tra l'altro la Deledda tradusse in italiano l'Eugenia Grandet. Tuttavia la Deledda esprime una scrittura personale che affonda le sue radici nella conoscenza della cultura e della tradizione sarda, in particolare della Barbagia.