Rotta sbagliata sulla “Vittor Pisani” - 6
- Scritto da Eliogabalo
Il sesto episodio di un racconto inedito di Eliogabalo pubblicato a puntate su IteNovas.com
“Io ho quasi 96 anni, e di cose ne ho viste tante, ma non posso dimenticare cosa sono stati quegli anni per me.
Molte cose non le ricordo più della mia vita, ma il periodo delle guerra è rimasto sempre vivo nella mia mente.” Disse Salvatore sistemandosi una coperta sulla schiena.
“Ricordo perfettamente il viaggio in nave da Olbia fino a Livorno insieme a tanti altri che come me, lasciavano andare qualche lacrima a confondersi con il mar Tirreno, mentre pian piano la nostra amata isola si perdeva dietro fitti banchi di nebbia. Ricordo il mare che si agitava sotto quell’insieme di lamiera assemblata alla bene e meglio, e ricordo la paura e l’incredulità di tutti nel vedere che, ancora, non venivamo risucchiati dal mare. Siamo rimasti due giorni in preda al nervosismo e alla nostalgia che secondo dopo secondo si facevano più forti, fino a quando non si placarono del tutto, per un istante, una volta arrivati in quel porto che, in confronto a quello che avevamo lasciato due giorni prima, ci sembrò immenso. Beh cosa ti posso dire? Vuoi sapere come mi sono sentito dopo aver realizzato che il mio mondo stava per essere rovesciato? Vuoi sapere che peso portavo nell’anima sentendomi uno straniero persino a Livorno, lontano da casa e da tutto quello che per me aveva senso? Certo che lo vuoi sapere, vuoi persino sapere quanto sia stato maledettamente pesante pensare che ogni passo su questa dannata terra, sarebbe potuto essere l’ultimo. Vuoi sapere come ci si sente nel vedersi privata la possibilità di poter tornare a casa per un attimo, anche solo per dire le parole giuste a quelle persone che avevi lasciato dietro di te. Ora però non riuscirei a farti capire nel modo migliore questi concetti come avrei fatto molti anni fa, perché, per quanto lo possa negare, il peso di questa vecchiaia arrivata senza che me ne accorgessi, inizia a gravare sulle mie spalle e toglie quelle famose parole giuste dalla mia bocca.”
Salvatore aveva il volto coperto da una strana patina di malinconia quando pronunciò queste parole. La sua voce era profonda ma allo stesso tempo triste e nel mentre che raccontava, si guardava intorno con sospetto in quella cucina, come se si fosse accorto che quella sua amica atipica fosse lì ad ascoltare la sua storia. Forse fu proprio così. Mi piace pensare che i loro sguardi si siano incrociati e che, con profondo rispetto, la morte gli abbia concesso di continuare a raccontare. Lei di certo non l’avrebbe interrotto. Dopo aver bevuto un sorso d’acqua riprese a parlare e disse: “Sai, le cose dopo quel giorno andarono veloci, e in men che non si dica mi ritrovai a Verona per iniziare l’addestramento. Ci avevano spiegato che per necessità belliche saremmo partiti tutti per il fronte prima dell’inizio dell’estate e, come se fosse una consolazione, ci dissero che avremmo potuto scegliere se specializzarci in qualche altro corpo d’armata che non fosse fanteria. Molti non lo fecero, poiché pensarono sarebbe stato inutile dal momento che tanto saremmo morti tutti quanti in ogni caso. Ma non era vero, anzi specializzarsi avrebbe potuto salvarti la vita, perché in caso contrario saresti entrato direttamente in qualche reparto di fanteria e mandato a morire chissà dove.” “E tu cosa decisi di fare quindi?” Chiesi io. “ Io, insieme ad altri sardi, facemmo il corso per diventare carristi, e qualche settimana dopo l’inizio del corso, ci dissero che eravamo pronti per poter guidare i carri armati in Africa. In Africa, ti rendi conto? Tra me e me pensai: Ma quale Africa? Quali carri armati? Sì avevo imparato ogni cosa, ogni componente del carro, ma di certo non ero pronto per partire, in quel posto poi, che se non fosse stato per tutta la gloria che il nostro compaesano si era costruito durante le campagne coloniali, io nemmeno avrei saputo della sua esistenza.”
Con un accenno di risata rilassò il suo viso fino ad allora corrucciato, e si mise a fissare il muro di fronte a lui, in silenzio, come se volesse mettere in odine ogni sentimento contrastante riguardo fatti e persone appena citati. Riprese dicendo: “Ora esagero, ma dico questo per farti capire in quali condizioni sono partito da Roma verso quel grande continente. A noi, nuovi carristi, ci avevano inserito in una divisione corazzata creata dal fascismo proprio per questo tipo di guerra. La divisione Littorio se non sbaglio, che poi una volta in Africa venne accorpata alla divisione Ariete, che per quanto riguarda la guerra nel deserto aveva più esperienza. Insomma dopo poco più di un mese venimmo trasportati a Roma e imbarcati sulla Vittor Pisani insieme a tutti gli armamenti, e il 20 giugno verso le 6 del mattino siamo partiti alla volta della Libia. Ah, ricordo bene il giorno della partenza. Quasi tutti i miei compagni del continente vennero accompagnati al porto militare dai familiari, o dalle loro fidanzate che si lasciavano andare a pianti ininterrotti e ad amoreggiamenti dell’ultimo secondo, mentre noi sardi, almeno la maggior parte di noi, eravamo soli con i nostri pensieri, mentre ci guardavamo la punta degli stivali appena lucidati che rifletteva con la luce di quel caldo sole mattutino, fischiettando e fumando come ciminiere aspettando l’ordine di salire a bordo.”
Si fermò improvvisamente come se volesse riordinare per un attimo le parole, e dopo qualche secondo disse una frase che commosse me e sicuramente anche l’altro ascoltatore nascosto nella sala. Ci disse: “Mi mancava casa mia. Mi mancava mia mamma, mio babbo, i miei fratelli e Vittoria, lei più di ogni altra cosa. Mentre facevo finta di niente sul quel pontile insieme a tutti gl’altri, dentro di me stavo versando tutte le lacrime che non potevo far scendere dai miei occhi di persona, per non sembrare un debole davanti a tutti. Ma l’avrei voluto fare. Dio quanto l’avrei voluto fare! Mi sarei voluto buttare in mare e nuotare fin quando non sarei arrivato a casa. Mi mancavano i miei campi, i miei monti, e sempre dentro di me pensavo se chissà gli avrei mai potuti rivedere.”
Per quanto mi avessero colpito le sue parole, non sono stato in grado di capire a pieno il profondo significato che queste portavano con loro. Mi disse di aver perso quelle “famose parole giuste” con la vecchiaia, e che purtroppo non mi avrebbe potuto far comprendere veramente quello che voleva spiegare, ma ciò non era vero. Le parole erano quelle giuste e avevano colpito nel segno. Era la capacità di poter cogliere il pesante fardello che si nascondeva dietro il suo raccontare, poco adeguata a quelle parole. Questo perché ho capito nonostante tutto che, per quanto si possa conoscere la storia, quella che si studia sui libri, quella obbiettiva, ciò che ti può lasciare un altro tipo di storia, ovvero quella raccontata da chi quei tempi li ha vissuti veramente, è qualcosa di più che semplici informazioni. Crea una sorta di empatia con chi è sopravvissuto a quell’epoca dimenticata, ma allo stesso tempo non rende pienamente abili per poter cogliere effettivamente il messaggio che il narratore vuole trasmettere. Non tanto per incapacità cognitive o per mancanza di fantasia, ma semplicemente perché il confronto con un'altra generazione, che sembra lontana anni luce dalla nostra, delimita in maniera netta i confini invalicabili tra due mondi sconosciuti. Salvatore ora è morto e con sé anche un pezzo di storia che è sia privata che comune a tutti, e che purtroppo fra qualche anno sarà veramente dimenticata. Non ebbi il coraggio di affrontare questo discorso con lui e, fondamentalmente, non ebbi nemmeno il tempo materiale per farlo, nonostante durante i suoi racconti mi fece capire quanto fosse grande la sua sfiducia per questi tempi moderni e per ciò che portano appresso.
Fu un’altra persona a me cara a darmi una soluzione plausibile per questa nostra concezione problematica. Questa persona mi disse che è il tempo il vero artefice di tutto. È lui che con totale indifferenza nella sua corsa, concede e poi nega d’improvviso. Plasma gli esseri umani e li adegua al breve periodo che concede loro di vivere, creando un distacco repentino con il passato, poiché anche lui sembra non dare rilevanza a ciò che è stato. Mi disse che il tempo invecchia insieme a noi, e come tutti i vecchi peggiora nel carattere e nella sua capacità critica. Ecco perché noi non siamo capaci di capire, per colpa del tempo che ci ha resi indifferenti come lui e ci costringe a dimenticare. Ma ecco che Sergio Atzeni arriva puntuale e ci da la soluzione per sconfiggere questa bieca tirannia temporale. Disse che per far sì che si possa ancora raccontare di quando passammo per la prima volta su questa terra leggeri, non avremmo avuto bisogno di armi, ma di custodi. Custodi del tempo. Ci consigliò di imbrogliarlo come lui troppo spesso ha fatto con noi. In modo che questa potente divinità non ci trascini insieme a lei nel baratro della dimenticanza, poiché se dovessimo dimenticare, gli insegnamenti ottenuti risulterebbero vani, e se questi dovessero essere vani allora ogni sbaglio commesso riaffiorerebbe in superfice. Più o meno ciò che disse Primo Levi a noi futuri giovani. Eppure basta guardarsi intorno per capire che le paure dello scrittore partigiano torinese non sono mai state tanto fondate.
Dopo una lunga pausa necessaria per combattere la stanchezza del ricordare, Salvatore continuò a raccontare a me e alla morte la sua storia. Forse con la speranza nascosta che qualcuno dei due uditori in quella cucina, potesse sentirsi in qualche modo custode del tempo.
Dopo un sorso d’acqua ci disse: “Dopo due giorni e mezzo di navigazione, giuro di aver sentito nel vento il profumo di casa...
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