Fra’ Giacinto – Storie e misteri della mafia “minore”
- Scritto da Effe_Pi
Il primo di una serie di racconti meno conosciuti sulla criminalità, la storia del frate siciliano poco francescano e molto amico dei potenti e delle signore palermitane.
Di Serpico
Negli anni '70 la città di Palermo convive con una mafia sonnolenta e invisibile. Sono anni di artigianato investigativo e le "ammazzatine" erano relegate nelle pagine di cronica locale e liquidate come scontri tra bande criminali. Ancora lontani gli echi delle confessioni di Buscetta e del maxiprocesso, istruito dai giudici Falcone e Borsellino, che sancì l'esistenza di una vera e propria organizzazione verticistica e piramidale basata sul vincolo associativo e la forza intimidatrice. Mafia potente e con agganci di altissimo livello tali da condizionare la vita politica e sociale di quartieri, città e province, sino a valicare i confini dell'isola.
Eppure i segnali e gli omicidi eccellenti c’erano già. Morirono Boris Giuliano, Terranova, Mauro de Mauro, Scaglione e tanti altri. Ai piedi nel monte Grifone, nell’antica borgata palermitana di Santa Maria di Gesù, ancora oggi vi è un pittoresco cimitero monumentale (e che prende il nome della borgata) costruito nel XIX secolo tutt’attorno al già esistente convento fondato dai frati minori nel 1426. Un cimitero dove riposano i nobili palermitani. Ed è lì che anni prima arrivò da Favara, paese di zolfatari e agricoltori dell'agrigentino, Stefano Castronovo, al secolo Fra’ Giacinto un francescano alto, bello, giovane e irrequieto.
Arrivano da Favara anche voci e pettegolezzi sul suo conto. Donnaiolo indomabile, dicevano che avesse un brutto carattere e un prelato affermò deciso, senza tanti preamboli, che la tonaca non fosse adatta a lui. I suoi superiori del convento palermitano avrebbero fatto tranquillamente a meno di questa ingombrante presenza. Tratta a pesci in faccia i suoi confratelli ed è intollerante ad ogni gerarchia. A dispetto della vocazione francescana e del voto di vita monastica e umile a lui piacevano la bella vita il lusso e il denaro. Tirava tardi la sera e il mattino spesso marcava visita. Svogliatamente cantava messa e preferiva delegare il compito ai suoi confratelli. Preferiva frequentare assiduamente i mondani salotti palermitani dove tutti s'incontrano e dove è facile incorrere in amicizie spericolate e disinvolte. Consolidò presto relazioni importanti.
Le privazioni francescane non erano per lui e si riservò per sé un’intera ala del convento relegando gli altri frati nei dormitori. Le sue segrete stanze erano spaziose e lussuose, con divani in pelle, TV a colori, bar con un’incredibile varietà di liquori, impianti stereo e una biblioteca con preziose collezioni di libri antichi. Tra le sue collezioni anche frustini e altri oggetti sadomaso. Su quest’ultimo particolare ovviamente si sbizzarrirono tanti giornalisti dell’epoca. I suoi incontri galanti con donne della buona borghesia palermitana erano in quegli anni ormai una consuetudine e di dominio pubblico. Grande elettore della DC di Gioia e Carollo, passò armi e bagagli con gli andreottiani di Salvo Lima.
Spesso si assentava per raggiungere Roma dove godeva di forti legami con politici nazionali e aveva libero accesso nelle stanze del potere dei ministeri. Dispensava favori e tanti si rivolsero a lui per ottenere un posto di lavoro, una promozione per evitare il miliare o per ricevere prestiti di denaro. Era intimo amico di Paolino Bontade e padre di Stefano, storico boss di Villagrazia, che verrà assassinato nel 1981 dai corleonesi di Totò Riina. Si scambiavano visite e incontri riservatissimi nel convento. Il vice questore Angelo Mangano, già a partire da metà degli anni sessanta, si convinse che il boss emergente corleonese, Luciano Liggio si nascondesse proprio nel convento. A seguito di una perquisizione senza alcun risultato Mangano rimase sempre convinto dell’ambiguità del frate. Intorno al cimitero patrizio annesso al convento di Fra Giacinto nacque anche la leggenda macabra secondo la quale le cosche nascosero i cadaveri di tanti picciotti e boss eliminati e fatti sparire. Una vera e propria necropoli di mafia in un luogo sacro dove nessuno osava cercarli. Dava protezione a mafiosi latitanti oppure custodiva i morti?
Erano gli inizi della seconda guerra di mafia che seminò di morti Palermo. I Corleonesi di Liggio, Riina, Provenzano e Bagarella cancellarono le storiche famiglie mafiose cittadine e i loro alleati. Uccisi, fatti scomparire o costretti a fuggire per non tornare più venne sterminata un’intera generazione di mafiosi detentori del potere assoluto su borgate e città. Il lucroso traffico di eroina era al massimo della sua espansione e questo creò un impazzimento generale che pesò ulteriormente nel bilancio di assassinii e strage anche contro uomini dello Stato. Il frate donnaiolo e usurario dalla vita spericolata era depositario di tanti segreti. Lo chiamavano Fra’ Lupara. Non aveva la lupara in effetti ma portava con sé una pistola P38. Le sue notti erano funestate di pensieri e di inquietudini. Il sei settembre del 1980 di una Palermo ancora estiva, due giovani abbronzati si presentarono in convento cercando il frate tenebroso. Lo uccisero con cinque colpi di pistola, tre al petto e due alla testa che gli sfigurarono il viso. Un’esecuzione in perfetto stile mafioso. In pochi si recarono al suo funerale, i suoi amici potenti disertarono le esequie così come il quartiere. Troppo sconveniente e pericoloso vantare amicizie con il frate, morto addirittura in odore di eresia. Si portò nella tomba tutti i segreti inconfessabili che turbavano la sua anima inquieta.
Nessuno dimostrò interesse per la morte del francescano! Ad oggi nessun colpevole, né esecutori né mandanti sono stati individuati. Nessun collaboratore di giustizia parlerà in futuro di questo omicidio di mafia. Lo scrittore siciliano Sciascia, nelle sue profetiche analisi, avanzò l’idea che Fra’ Giacinto fosse un informatore della polizia e per questo assassinato. Padre Timoteo provinciale dei francescani, secondo quanto scrisse Saverio Lodato in “Trent’anni di mafia”, officiò l’omelia e nella predica se la cavò in maniera molto classica. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. La seconda guerra di mafia era solo agli inizi.
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