IL GIARDINO DEI SICOMORI | Capitolo 5
- Scritto da Luigi Citroni
Un thriller avvincente e dal ritmo serrato ambientato in Sardegna!
IL GIARDINO DEI SICOMORI
di Luigi Citroni
CAPITOLO V
L’alba di montagna risplese timida al mattino oltre la valle di San Giacomo, conferendo luce a ciò che la notte nascose con abilità sotto il suo manto.
Le nubi notturne si dispersero nell’aurora, e l’azzurro del cielo sembrò essere visibile in tutta la sua lucentezza.
In quell’atmosfera serena, intorno alle sette del mattino, un furgoncino Fiat 615 si accese di botto poco più avanti dell’ingresso del Giardino Dei Sicomori, portando via dentro di sé due investigatori e un uomo dalla lingua troppo lunga.
- Mi avete sorpreso- disse il passero- pensavo vi avrei dovuto buttare giù dal letto come si fa con le signorine e invece...eccovi qua-
Con gli occhi ancora gonfi dal sonno e le dita a massaggiare le tempie, stretto fra due uomini, Fanti rispose: - Per favore…portaci in questo posto e finiamola qua. E se ce la fai non fiatare fino a quando non siamo arrivati -.
Il passero con la mano alla fronte, mimando un saluto militare, obbedì all’ordine del poliziotto, e tra mille sospiri, diede gas a un furgoncino che in men che non si dica venne risucchiato da un vivace vortice floreale, lungo la scalata verso la cima del monte.
Curva dopo curva, il furgoncino sfilò lungo una passerella umida, tra arbusti e boschi impenetrabili, protetti da rovi, edera e ortiche.
Pian piano lasciava dietro di sé un verde lussureggiante restituendo agli occhi uno spettacolo più solenne, tra spuntoni di roccia solitaria all’apice del percorso.
- Da qua si può solo scendere. – disse il passero – siamo nel punto più alto della zona e per la destinazione desiderata ci vogliono altri venti minuti. Almeno procedendo a questa velocità. Dobbiamo inoltrarci nell’altro versante-.
Assordati dal ronzare esausto del motore messo alla prova dalla vertiginosa scalata, i due investigatori lasciarono che le parole del passero si spegnessero e si confondessero tra i mille rumori dentro l’abitacolo. Il loro sguardo rimase immobile oltre il parabrezza, scrutando ogni angolo di una natura intonsa.
In quel panorama sembrava non esserci nemmeno il più tiepido richiamo al genere umano. Parevano paesaggi mai esplorati. Luoghi capaci di rigettare la presenza dell’uomo come un organismo espelle un batterio. Un giaciglio primordiale nel quale ci si poteva sentire ospiti indesiderati, tenuti sott’occhio dalla roccia incastrata in pareti scoscese e i suoi alberi. Come se essi fossero vigili guardiani pronti a maledire chiunque violasse la propria sacralità.
Qualche minuto dopo essere arrivati in cima, il furgoncino iniziò a prendere velocita.
La discesa lungo il versante opposto iniziò lieve, come se il monte volesse così avvisare i viaggiatori dell’inizio di un nuovo mondo da conoscere ai piedi della sua maestosità.
Dopo questo piccolo invito, il sentiero iniziò a degradare notevolmente, tra curve a gomito e lunghi tratti privi di deviazioni attraverso il sottobosco, fino ad arrivare al mare.
Tra la vegetazione, poco prima dei richiami marini, un piccolo spiazzo disegnato nella terra battuta, interrompeva il battistrada.
- Siamo arrivati. – disse Efisio Satta.
Il furgone si fermò così slittando tra i ciottoli di quel piccolo anfratto, e i tre uomini visibilmente scossi da un sussulto d’ansia, scesero dal mezzo e si inoltrarono nella macchia seguendo il percorso tracciato dalla squadra omicidi di Oristano.
- Dai primi rilievi l’assassino si è fermato proprio dove abbiamo parcheggiato il furgone - disse il passero guidando i due poliziotti lungo un tratto sdrucciolevole, tra radici e piante spinose cresciute tra imponenti alberi di pino - sono state trovate tracce di pneumatici sul terriccio. Ancora non è chiaro a che macchina appartengano, ma di certo si tratta di una vettura, non di un mezzo pesante. Le tracce sono sottili e leggere, almeno più leggere di qualsiasi tipo di macchina dal peso superiore ai trecento chili. L’uomo ha trasportato la donna sulle spalle. Verosimilmente era già nuda. Non sono state trovate tracce di vestiti tra i rovi e i rami, cosa che sarebbe potuta sfuggire all’assassino. Si è mosso con abilità. Non sono state trovate tracce e nemmeno impronte, quindi per il momento è impossibile stabilire un ipotetico peso o misura. Sapeva dove stava andando quello sì. Conosceva il posto, altrimenti ci avrebbe lasciato qualche indizio in più. – disse in conclusione.
- Ma che cazzo sei te…un poliziotto per caso? – domandò Sabatini.
- No, lo sono stato. Ora sono un investigatore privato. Pagato dalla famiglia di Sandra Beselasi e assunto dal vostro capo per farvi da guida. Ed ecco la verità sul mio conto signore e signori.
- Bene almeno così non sarai del tutto inutile – disse Fanti con tono sollevato – piuttosto… secondo te può essere stato qualcuno del posto? – chiese.
- Non per forza – rispose il passero – di per certo posso dire che ha passato molto tempo nei dintorni. Forse per conoscere il territorio, per osservare la sua preda. Forse è qualcuno che abbiamo persino conosciuto. Ma per tutto ciò ho solo delle ipotesi lontane dalla certezza.
- Ma se così fosse…se veramente non fosse stato autoctono, ma un assiduo visitatore…da qualche parte avrà pur dovuto alloggiare o mangiare. Insomma capisci cosa voglio dire? – sentenziò Fanti con tono grave.
- La capisco benissimo agente. Purtroppo non è così semplice. Oltre i luoghi più comuni, non avete idea di quante baite o costruzioni abbandonate, vecchi campeggi, alberghetti costruiti ai piedi delle montagne ci siano in zona. In un raggio di venti chilometri ne ho contate all’incirca sedici. E tutte disabitate. –
- Ci gioco i coglioni che nessuno ha avuto la geniale idea di battere questa pista o sbaglio? – disse Sabatini.
- No – rispose il passero – per questo ci siete voi – disse con tono sarcastico – scherzi a parte, abbiamo controllato qualche rudere senza trovare niente di significativo. Per un avventura del genere sarebbero serviti uomini, cani e guide esperte, e soprattutto soldi. Come potete immaginare non c’è stato niente di tutto questo. –
Stizzito e infastidito dalla fitta selva, dalle spine e i rami incastrati tra la giacca e il suo collo, Fanti glissò sulle parole del passero senza troppi indugi. – C’è qualcosa che non torna- disse -tre uomini camminano a fatica durante un giorno senza pioggia, alla luce del sole, mentre presumibilmente in piena notte, sotto il diluvio universale, un uomo con un corpo in spalla, su un terreno impervio, è riuscito a non lasciare nessuna traccia? Come cazzo è mai possibile? – concluse Fanti.
- Eppure è così – disse il passero spostando gli ultimi ostacoli prima di alzare il sipario sul luogo del ritrovamento del cadavere.
I tre uomini si ritrovarono in men che non si dica dinnanzi a un tronco monco abbrustolito, nel bel mezzo di una radura bruciata da una mano diversa da quella naturale. Ciò che sarebbe dovuto essere uno scorcio di luce in mezzo a un fitto bosco, si mostrò a loro con sembianze totalmente atipiche.
- Questo non era sul fascicolo, le foto erano ben diverse - sospirò Sabatini – questo è un cazzo di teatro. Nessuno ha mai fatto cenno alle sterpaglie bruciate intorno. Si parlava di vegetazione avvizzita. Non di un cazzo di fuoco fatto ad arte.
- Qualcosa è cambiato – disse il passero con tono inquieto – questo non è il posto che ho visto qualche giorno fa. Qualcuno è tornato e ci ha messo mano. Forse per voi.
Con un movimento quasi del tutto automatico del braccio, Fanti e Sabatini misero contemporaneamente mano alla pistola sotto le loro giacche a vento.
Con l’arma ancora adagiata dentro la fondina, si fecero strada lungo il perimetro bruciato guardandosi intorno, pronti ad ogni eventualità. Fin quando il passero puntando il dito verso il centro del luogo del delitto esclamò – e quello che diavolo è?! -
I due poliziotti alle parole del passero, spostarono la loro attenzione verso un piccolo alberello dalla corteccia liscia e senza incrinature.
- Non ho mai visto questa pianta – disse ancora Efisio Satta.
Intanto Fanti, dopo essersi avvicinato con cautela e accarezzando i sottili ramoscelli carichi di boccioli quasi del tutto rinsecchiti, intravide un piccolo foglietto arrotolato e legato con cura alla base della pianta.
Lo prese, lo srotolò con cura e lesse: Ficus sycomorus - E’ chiaro il perché non hai mai visto questa pianta – disse subito dopo – non è un qualcosa che cresce da queste parti.
- C’è qualche scritta sul retro – disse Sabatini chino sulle ginocchia accanto al collega.
Fanti allora girò il foglietto e lesse a voce alta: Non per tutti il destino è un mistero. La risposta sono cinque lettere cucite sul nero. E così il sole all’alba splenderà infine su di un cimitero.
- Non per tutti il destino è un mistero? Lettere cucite sul nero? Che razza di storia è questa? Ma dove ci hai portato? – chiese Fanti con una chiara nota di preoccupazione.
Il passero ammutolì.
Rimase immobile a pochi metri dall’agente, osservando la natura circostante in cerca di qualche possibile indizio.
Le sue parole, spesso in esubero, in quell’istante si persero tra la terra bruciata e gli alberi rinsecchiti, unici testimoni dell’assassinio di Sandra Beselasi.
- Che cosa significa questo biglietto? -
- Non lo so-
-È una presa per il culo? –
- Non lo so. –
- Cosa vuol dire non lo so, dimmi che cosa cazzo avevi in mente portandoci qua- incalzò Fanti
- Non lo so vi dico. Non so niente! È tutto diverso. Sandra non è stata trovata in queste condizioni. La vegetazione non era di certo incenerita, non c’era quella pianta, e soprattutto non c’era quel cazzo di biglietto. Qualcuno sapeva del vostro arrivo, ed è tornato qui per lasciarvi un messaggio- rispose il passero.
- Qualcuno come te? – disse Sabatini con tono inquisitorio.
Le parole dell’agente non sortirono alcun effetto.
Nessuno fece caso alle sue elucubrazioni, ma imperterriti continuarono a scrutare il mondo nascosto tra i pini e la foschia che pian piano adornava la montagna.
- Penso sia il caso di muoverci – disse Fanti – dobbiamo andare alla ricerca di qualche traccia. Questo biglietto dovrà pur avere un senso…o no? Credo sia del tutto impossibile che il nostro assassino non abbia lasciato nemmeno un indizio. –
Con il biglietto stretto tra le mani e una placidità del tutto fuori luogo, l’agente iniziò a farsi largo tra le sterpaglie carbonizzate.
L’odore di bruciato pervase le sue membra e un silenzio assordante generatosi dentro di sé, lo catapultò tra le rovine di una vita nascosta tra le ceneri del passato.
In quel momento fu facile ripercorrere i sentieri serpeggianti racchiusi tra gli abeti, lungo una fitta scia di torrenti in corsa verso una piccola terrazza incastrata tra i rilievi, dove i primi affluenti si univano al Piave.
Allora i ricordi, come tizzoni assopiti, ridestarono la loro fiamma al soffio di gelidi venti di Tramontana, e riportarono alla luce un giovane corpo intento a farsi strada tra rocce, ciottoli e aridi arbusti spinosi, fino a perdersi tra la fitta nebbia della pianura, dove le alture ormai parevano essere solo un brutto ricordo.
I pesanti scarponi annegavano a ogni passo nel fango di una tenue terra lussureggiante, mentre il giovane, avvolto in un bozzo di lana e pelle di vitello, avanzava a stento con stretta tra le mani la sua vita racchiusa in una sacca di cuoio.
Il piccolo altopiano intanto degradava adagio seguendo il lento e inesorabile fluire del fiume. Seguiva inconsciamente il percorso tracciato dalle acque fino a perdere la sua essenza tra le valli anticipatrici della Pianura Veneta, dove la vita aveva un altro sapore.
Al di là della foschia e di basse nubi riflesse su limpidi laghi di montagna, riusciva a intravvedere i primi richiami di civiltà.
Padova e Trento non furono mai così vicine come allora, e mentre la mente assaporava i primi spasmi di libertà, il cuore in preda alla paura, instancabile, pompava sangue per dar un lieto fine alla fuga di un rigurgito espulso dalla neve.
Erano ormai due i giorni di viaggio attraverso strade tracciate da camosci e cervi, tra la quiete di una natura severa, e le grida acute di aquile guardiane.
Quarantotto ore senza proferir parola con nessuno. Nemmeno con Dio.
Solo un giuramento mormorato a denti stretti. La promessa che il sangue avrebbe lavato via il suo dolore, e che il sole così all’alba avrebbe rispleso su di un cimitero.
Su di un cimitero.
Ci vollero diversi minuti prima che Lucio Fanti abbandonasse l’eco di una profezia pensata tra le Dolomiti.
Fu la voce del suo collega a riportarlo alla realtà. Un insistente richiamo che alla fine strappò Fanti dal tenue ma pericoloso pensiero che tra le mani, in un foglietto di carta, stringesse parte del suo passato.
- Penso di aver trovato qualcosa – disse Sabatini facendosi largo tra i rovi – e poco più giù, da questa parte. Venite! –
Efisio Satta e Lucio Fanti in men che non si dica furono alle spalle dell’agente Sabatini che immobile mostrava ai suoi colleghi una natura sconquassata, come se fosse stata travolta da una valanga.
- Mio Dio! – esclamarono all’unisono i due appena giunti sul posto.
Per poche centinaia di metri la terra umida si presentava ai tre come trafitta da profondi e disordinati solchi.
Come tracce di un mezzo agricolo seguivano il pendio spingendosi lungo tutto il crinale verso la strada asfaltata, dove siepi e arbusti sfregiati come se fossero vittime del passaggio di un essere imponente, trattenevano tra le grinfie pezzi di stoffa insanguinata.
I tre esterrefatti dal singolare scenario, iniziarono a sondare il terreno rivoltato con la perizia di un cinghiale alla ricerca di ghiande, e in men che non si dica trovarono le prime impronte scolpite nel terreno.
Ormai erano quasi del tutto sbiadite ma ancora lasciavano la chiara testimonianza che l’uomo, presumibilmente l’assassino, fosse di corporatura robusta.
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