Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu
- Scritto da Effe_E
In ventidue capitoli Emilio Lussu con un tono dolente e sarcastico insieme racconta il sorgere e il dilagare del fascismo soprattutto in Sardegna, manovre politiche, agitazioni di piazza, figure camaleontiche e macchiette popolari.
Incipit
Il mio battaglione era sulla linea di armistizio, alla frontiera jugoslava, quando a Parigi si riunì la Conferenza della Pace. L‘esercito era democratico. Non avevamo noi proclamato, per cinque anni, di batterci per una causa di libertà e di giustizia? Il messaggio di Wilson era popolarissimo fra i combattenti, e grande fu la delusione quando sembrò che i 14 punti, ad uno ad uno, crollassero al contatto della diplomazia europea. La diplomazia era già per se stessa antipatica ai combattenti press’a poco come lo Stato Maggiore.
Quando Orlando e Sonnino, rappresentanti del governo italiano alla Conferenza, s‘impuntarono reclamando l’adempimento del patto di Londra per cui i diplomatici avevano attribuito la Dalmazia all’Italia, vi furono, fra ufficiali, molte discussioni nel mio settore. Persino il comandante della mia Brigata, che era un generale, ma si interessava di problemi di politica estera ed era amico di Bissolati e quindi un democratico come può essere un generale in Italia, sentì il bisogno di dire a un gran rapporto di ufficiali: «È certo che noi abbiamo vinto la guerra, ma quei signori finiranno per darci la sensazione di averla perduta».
Nel paese v’era grande fermento.
Mussolini faceva l‘imperialista e scriveva articoli veementi sul suo giornale. Ma allora, egli era molto impopolare fra i combattenti. Al congresso degli ex combattenti italiani, che i primi reduci avevano tenuto al Campidoglio verso la fine del 1918, egli non poté neppure parlare. Si ritenevano molto equivoche le fonti del suo giornale e gli si rimproverava di aver voluto la guerra con ostinazione, ma di averla fatta con discrezione. Né, per i combattenti, era scusante la famosa ferita che, una volta curata, non doveva dispensare un interventista dagli obblighi della trincea. C’era, fra i combattenti tutti, il più grande disprezzo verso quegli uomini politici che avevano predicato ma non fatto la guerra.
La smobilitazione avvenne gradualmente. Milioni di combattenti rientravano nella vita civile, stanchi della guerra e assetati di pace. Ma, come suole avvenire ai ferventi sostenitori della pace, essi portarono, in questo loro sentimento profondo, uno spirito di guerra.
La psicologia umana è colma di contrasti. Negli anni precedenti, era accaduto esattamente tutto l’opposto a quelli che avevano reclamato la guerra, esaltati da impeti romantici o militaristi. Questi avevano partecipato alla guerra con mite spirito di pace, o avevano fatto le finte di parteciparvi, o non vi avevano partecipato affatto.
Per migliaia di combattenti smobilitati, inoltre, il paese non era in grado di offrire occupazione immediata. Il costo della vita era in continuo aumento. Delusioni quindi e rancori. Ah! dunque, i combattenti morivano di fame, mentre gli impresari della guerra ostentavano milioni? Era dunque questa la pace? Mille volte da preferirsi la guerra! È vero che la vita era così in continuo pericolo, ma valeva tanto poco!
Tutto questo aumentava il fermento.
Il governo presieduto dall’onorevole Salandra, fin dal 1915, aveva promesso ai combattenti, per animarli alla guerra, distribuzioni di terra. I governi che si erano succeduti avevano formulato le stesse promesse, e noi ufficiali in trincea commentavamo ai soldati le circolari ministeriali e del Comando Supremo sulla ‘terra ai contadini’.
Ora che la guerra era vinta, e per merito loro, i contadini reclamavano la terra al governo e agli agrari. Ma il governo aveva altri pensieri per la testa, e gli agrari, sia pure con ritardo di quattro anni, protestavano energicamente contro gli uomini di governo che avevano osato offrire, con tanta generosità, la proprietà altrui. Le terre - sostenevano essi vanno date ai contadini solo all‘apice dello sfacelo nazionale, cioè quando si perde e non quando si vince una guerra. E invocavano l’esempio della Russia. I combattenti vittoriosi - affermavano ancora la terra se la conquistano in Stati stranieri, non la usurpano in patria. E per essere pratici suggerivano al governo spedizioni in Asia Minore, in Georgia, sconfinamenti in Dalmazia e sconvolgimenti in Tunisia. Avvenne l’inevitabile. In parecchie regioni i combattenti senza terra invasero i latifondi incolti, insieme con i contadini più poveri.
Mussolini, allora, si schierò con i contadini.
L’eccitazione delle campagne era ben poca cosa di fronte a quella delle città. Mentre il costo della vita aumentava, i salari rimanevano fissi e, in alcune industrie, diminuivano. Gli arricchiti di guerra ostentavano la loro ricchezza di fronte alla miseria crescente. Grossi commercianti, per i quali la guerra era finita troppo presto, esigevano guadagni eccessivi. La fame era alle porte di molte città. Ne nacquero violente invasioni di negozi con saccheggio e conflitti. ’Abbasso gli affamatori del popolo! La rivolta è una necessità assoluta per colpire la voracità degli affamatori!’, scriveva nel suo giornale Mussolini.
Le masse operaie organizzate portavano, nelle rivendicazioni economiche, ideologie politiche. L‘esempio della Russia faceva apparire necessaria e possibile la rivoluzione anche in Italia. Ogni contrasto sindacale esigeva uno sciopero. Numerosi quindi gli scioperi parziali, allenamento necessario, secondo l’opinione dei più, allo sciopero generale politico. Il partito socialista, al quale aderivano le grandi masse operaie, era diviso in parecchie tendenze. Chi voleva la rivoluzione immediata e violenta, chi le riforme graduali e legali, chi non sapeva neppure quel che voleva. Questi ultimi formavano la parte più rilevante e più agitata. La direzione del partito si sforzava di conciliare le opposte tendenze, sicché la confusione aumentava.
Negli operai delle grandi industrie, più che in alcun altro, era vivissima l‘avversione alla guerra. Essi non vi avevano preso parte ma continuavano a combatterla, quasi che questa non fosse cessata, ma dovesse ancora scoppiare. Praticamente, tale avversione si traduceva in disprezzo per tutti quelli che l’avevano fatta, come se, per quattro anni, avessero scorrazzato gaudendo. Questo stato d’animo contribuirà grandemente, fra poco, ad alienare dagli operai le simpatie dei combattenti e dell’esercito.
Io ho assistito ad alcune di queste manifestazioni contro la guerra. Per quanto scomposte, erano veramente grandiose. Nessun paese, più dell‘Italia, ha espresso contro la guerra tanto sdegno postumo. Se in Italia le masse operaie avessero espresso, prima dell’inizio delle ostilità, una minima parte di quell’avversione che manifestavano a guerra ultimata, è certo che la guerra non si sarebbe mai fatta.
Un forte contingente di malcontenti proveniva soprattutto dagli ufficiali di complemento congedati e dagli ‘arditi della guerra’. Gli ’arditi’ erano truppe scelte, impiegate esclusivamente, durante gli ultimi anni di guerra, come reparti d’assalto. Essi non erano sottoposti a turni di trincea: vivevano nelle retrovie, spensierati e sportivi. Ma tutte le volte che i Comandi avevano bisogno di azioni audacissime, venivano trasportati rapidamente in prima linea e lanciati nel vortice. Smobilitati, si trovarono a grande disagio nel nuovo ambiente di lavoro e di pace. Non era il loro clima. Essi erano preziosi in tempo di guerra, detestabili in tempo di pace. In guerra, schernivano la fanteria, cioè la pesantezza, la disciplina, la vita di trincea: in pace detestavano la democrazia, cioè il governo di maggioranza, la burocrazia, la vita legale. Se a loro fossero state offerte delle terre, essi non avrebbero saputo che farne. Erano dei nomadi, non dei sedentari, e continuarono, irrequieti, a cercare l’azione.
Molti ufficiali di complemento s’erano acquistati i gradi in corsi accelerati poco esigenti, e per meriti di guerra. Studenti, piccoli impiegati, artigiani prima della guerra, erano diventati tenenti e capitani, comandanti di plotone di compagnia, di battaglione.
Chi ha comandato una compagnia in tempo di guerra, può ricominciare, senza sforzo, a studiare sui banchi della scuola? Chi ha comandato un battaglione, può rimettersi, senza sentirsi umiliato, a fare l‘impiegato d’archivio o lo scrivano a 500 lire al mese? La vita civile diventava per loro impossibile. Molti si erano abituati ad un ambiente superiore a quello in cui avevano vissuto nelle loro famiglie o nei loro impieghi, ché l’ufficialità in Italia ricorda molto da vicino quella tedesca. E potevano rientrare nella vita normale in stato fallimentare, essi che avevano vinto la guerra? E, inoltre, non avevano essi ogni giorno rischiato la vita? E avrebbero dovuto ora adattarsi umilmente al lavoro, alle dipendenze di quanti avevano fatto carriera rimanendo imboscati? Ah no, meglio la guerra. Tutti questi ‘arditi’ e ufficiali contribuirono a rendere più acuta la crisi politica. Nuclei fluttuanti fra i partiti di estrema sinistra e il nazionalismo, saranno, fra poco, con D’Annunzio all’impresa di Fiume e, fallito D’Annunzio, con Mussolini.
Il plebiscito del 1918 aveva fatto di Fiume una città italiana. La Conferenza della Pace non fu di questo parere. Gabriele d’Annunzio, poeta ed eroe, con la lira e con la spada insorse ribelle.
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In ventidue capitoli, brevi ma ricchi di informazioni, Emilio Lussu con un tono dolente e sarcastico insieme racconta ciò che ha visto e subíto dal 1919 al 1929, anno della sua avventurosa fuga da Lipari con Carlo Rosselli e Fausto Nitti: il sorgere e il dilagare del fascismo, soprattutto in Sardegna, manovre politiche, agitazioni di piazza, figure camaleontiche e macchiette popolari. A cominciare dai questori, giornalisti, deputati, professori, sindacalisti voltagabbana, descritti da Lussu nel loro tragico spessore.
Un documento imprescindibile rivolto in particolare alle nuove generazioni, che testimonia del contesto nazionale e delle sorti dell'Italia nel decennio di maggior abbrutimento civile della nostra storia e che rivela la forza di chi ha lottato fino all'ultimo, anche negli anni del dopoguerra, per una sinistra democratica.