Cenere di Grazia Deledda
- Scritto da Effe_E
Il romanzo narra la storia dell'assenza di una madre che, persa dietro una passione incontrollabile per un uomo, lascerà suo figlio nella casa paterna.
Incipit
Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull’orlo dello stradale che da Nuoro conduce a Mamojada, e s’avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini, glauchi e un po’ obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliege.
Dalla cuffietta rossa, legata sotto il mento sporgente, uscivano due bende di lucidi capelli neri attortigliati intorno alle orecchie: questa acconciatura ed il costume pittoresco, dalla sottana rossa e il corsettino di broccato che sosteneva il seno con due punte ricurve, davano alla fanciulla una grazia orientale. Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava striscie di scarlatto e nastri, coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali ed amuleti.
D’altronde Olì pensava che anche non segnando i cespugli che voleva cogliere, nessuno glieli avrebbe toccati: i campi intorno alla cantoniera dove ella viveva col padre ed i fratellini, erano completamente deserti. Solo in lontananza una casa campestre in rovina emergeva da un campo di grano, come uno scoglio in un lago verde.
Nella campagna intorno moriva la selvaggia primavera sarda: si sfogliavano i fiori dell’asfodelo e i grappoli d’oro della ginestra; le rose impallidivano nelle macchie, l’erba ingialliva, un caldo odore di fieno profumava l’aria grave. La via lattea e l’ultimo splendore dell’orizzonte, fasciato da una striscia verdastra e rosea che pareva il mare lontano, rendevano la notte chiara come un crepuscolo. Vicino al fiume, la cui acqua scarsissima rifletteva le stelle e il cielo violaceo, Olì trovò due dei suoi fratellini che cercavano grilli.
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Quando Cenere viene pubblicato, nel 1904, Grazia Deledda vive ormai da alcuni anni a Roma, dove frequenta significativi ambienti culturali (fra gli altri La Nuova Antologia e La Tribuna), ha una vasta rete di relazioni con artisti e intellettuali, editori e critici, poeti e scrittori, progetta di integrare la formazione di autodidatta mentre il suo successo si diffonde anche all’estero (Haguenin la definisce «la George Sand de son pays»). Alle spalle ha la complessa esperienza nuorese: la formazione umana e artistica si svolge nell’intreccio con le drammatiche vicende della famiglia e con la storia della società barbaricina negli ultimi decenni del secolo.
Da un lato la cultura antropologica della comunità dell’interno, radice e risorsa della sua arte, dall’altro le dinamiche economiche, politiche e culturali di Nuoro e della Sardegna, dopo l’ingresso nel nuovo stato unitario.
Il romanzo narra la storia dell'assenza di una madre che, persa dietro una passione incontrollabile per un uomo, lascerà suo figlio nella casa paterna per rientrare solo alla fine della storia.
Anania, il figlio allevato da una matrigna benevola e affettuosa, percorrerà tutto il sentiero della sua vita fra aspirazioni personali di un affrancamento definitivo dalla miseria del paese e la ricerca ossessiva della madre che, solo con il suicidio, porrà fine alle sofferenze proprie e di coloro che, come il figlio, hanno vissuto come una condanna la sua ingombrante assenza. Romanzo della maturità, Cenere incarna senza dubbio le qualità della Deledda, quella poetica della vita, della natura e della memoria che le valse il Nobel.