Il pane di Abele di Salvatore Niffoi
- Scritto da Effe_E
In questo romanzo Niffoi ci racconta con mano sicura una vicenda di amore e di amicizia che conferma le sue straordinarie doti di narratore di storie, anzi, di vero e proprio cantastorie.
Incipit
1
La coda di quell’inverno lungo e rugginoso passò come una scopa di citiso sulle colline imbiancate di Crapiles. Un vento maligno, spettinando le chiome dei rovi, si portò via la neve che per mesi aveva lievitato come un’immensa bolla di pane crasau dentro la gola di Su Viacu Vonu.
Zosimo Crajeddu uscì dal letargo di un brutto sogno proprio quando si sentirono croccare sul ghiaccio zigrinato dello stradone le ruote del postale. In quel momento, dalla punta di Sos Moios Bodios, il sole tornò a battere i tetti con le sue nocche infocate, quasi a voler spaccare le tegole gonfie d’umidità. Stiracchiando le gambe sugherose e pungenti, Zosimo uscì in cortile, si scrostò la faccia con un tocco di sapone rinsecchito e diede un calcio al gatto, che gli miagolava all’imbocco dei pantaloni di fustagno cercando di affilarsi le unghie nel gesso sporco.
«E levati dai cozzoni! Adesso ti manda in calore anche una gamba ingessata?».
Dentro la vasca di cemento galleggiava una lastra di ghiaccio bluastro spessa un dito. L’acqua della pompa era gelida e arrossava le mani in un gonfiore malato. Zosimo, che era nato di marzo, proprio il giorno di San Giuseppe, la sera prima aveva festeggiato i suoi dodici anni masticando un rene fumante di agnellone arrostito sulla cenere. Dopo la preghiera della buonanotte, gli avevano fatto inghiottire anche tre spicchi d’aglio crudo, di quello verdino germogliato che ti lascia la bocca pudescia per una settimana. Era stato così per ogni compleanno e sempre sarebbe stato così per la razza dei Crajeddu.
«Contro i vermi!» diceva babbu Vardolu. «Che quelli mangiano prima la carne e poi l’anima!».
L’aglio lo tenevano appeso in lunghe trecce odorose a una pertica dell’isostre e, per ritardarne il più possibile i germogli, lo benedicevano con l’acqua del pozzo di Santa Rosa. Qualche volta andava in muffa lo stesso, soprattutto se pioveva molto. L’agnellone lo ammaniava mannoi Pirroccu, che i reni glieli strappava con le mani, lasciando intatto quel reticolo di grasso dolciastro che dopo la cottura rivestiva il palato di una patina misteriosa come la voglia di vivere.
Quel mattino Zosimo si era svegliato con l’alito che sapeva di ventrame rivoltato, come se si portasse dentro le radici della morte. La cassa di quercia della sua stanza, che la madre usava come ripostiglio per la biancheria fina, gli era sembrata una bara scolpita dal demonio. Era sceso dal letto impaurito, quando i primi raggi di sole avevano iniziato a disegnare, sui muri calcinati di turchese, ombre spugnose e fuggenti, in una guerra di serpenti e corvi che si accapigliavano a sangue per spartirsi i resti di una colomba bianca. La piccola specchiera, chiazzata di macchie forforose color piombo, rifletteva sul pavimento barbagli di luce opalescenti. Avrebbe dormito ancora se quel maledetto incubo di Battoreddu che moriva impredicato tra i crinali calcarei della gariga di Briscamilosa non lo avesse svegliato all’improvviso, come una coltellata a freddo, un malaugurio diventato realtà.
Da quaranta giorni non metteva piede all’ovile. Da quando si era spaccato in tre la gamba destra babbu Vardolu lo aveva messo a riposo forzato, e mama Gaetana lo mandava solo a fare le commissioni nel vicinato. Lui le faceva a collo grosso, indispettito, perché si sentiva già un uomo e non gli piaceva che i grandi lo vedessero andare e tornare dalla bottega o dal mulino. La gamba se l’era rotta mentre cercava di recuperare un maschio da una forra, nei pressi di Punta Tanache. Quel caprone gli aveva lasciato i segni delle testate, anche se alla fine lui era riuscito a portarlo su: «Che già non vinci tu!» gli ripeteva sul muso mentre lo tirava per le corna.
Si sfregò bene la faccia con un asciugamano di tela grossa, poi lo riappese a uno dei chiodi che sporgevano dalla parete. Un minuto dopo uscì in strada, lasciando il portalone aperto sul cortile, che a quell’ora iniziava a popolarsi di galline e maiali.
Imboccò il vicolo che portava alla panetteria quando il sole già stilettava sopra i vetri la sua rivincita con raggi così intensi e accecanti che costringevano ad abbassare lo sguardo a terra. Sotto il loggiato di piazza Padedda una mezza dozzina di cristiani odorosi di muffa e di mutande sporche facevano la fila con la sporta in mano, in attesa di addentare le spianate calde con ciccioli e strutto.
Più avanti, oltre il tzilleri di tziu Vrentibasciu, un bambino vestito alla continentale si allontanò da un mucchio di valigie e di fardette lunghe per andare a staccare dal becco di una grondaia un candelabro di ghiaccio. La voce di un uomo dal viso gonfio e incerato saettò sino all’androne del convento e rimbalzò tra i pilastri scrostati:
«Nemesio! Torna subito qua!».
Allora il bambino vestito alla continentale si voltò e Zosimo poté vederlo in faccia: sotto un cappello foderato di pelliccia, quel bambino, che doveva avere più o meno la sua età, nascondeva un nido di riccioli che si sfilacciavano su due occhi color prugna acerba. Prima di tornare dai genitori, il piccolo forestiero spezzò in due la spada di ghiaccio. Sorridendo, si avvicinò a Zosimo e gliene offrì uno stecco.
«Tieni!» gli disse. «Questa è la spada del generale inverno, che si divide solo con un nuovo amico!».
Zosimo, che se lo era ritrovato davanti come un ragno caduto dal cielo, allungò la mano e disse solo:
«Medas grascias!».
«Medas grascias» ripeté Zosimo a voce alta mentre il bambino si allontanava, poi continuò a guardarlo a lungo, come si guarda una razza di cristiani mai vista, lasciandosi squagliare lo stecco di ghiaccio tra le mani. Nemesio si mise in coda alla processione di famiglia e col berretto fece un ultimo saluto al nuovo amico, poi gridò: «Vieni a trovarmi qualche volta!».
Zosimo entrò nella panetteria e si lasciò galleggiare nel fiume di odori caldi che uscivano dal forno. Sentori di fame persa, di mietitura, di terra e spiga, di farina e saliva, di roba che lentamente scende giù e sazia. Dentro la butteca le donne non parlavano d’altro:
«Avete sentito che è arrivato il nuovo segretario con tutta la famiglia?».
«Sentito e visto, comare Gesuì, ha delle figlie che sembrano melecotogne!».
«E la moglie, com’è?».
«Sembra la Madonna addolorata, signora Chisché!».
«E ad abitare, dove vanno?».
«Nel vicinato di Sas Bullittas, dove stanno quelli di Crajeddu».
Zosimo divenne rosso dalla contentezza. La strada del ritorno la fece tutta sul marciapiede, che già fumava sotto il sole, liberando una nebbiolina argentata. Dentro il cuore, dispersa in rivoli pruriginosi, si portava a casa una sensazione nuova e palpitante, che non si lasciava indovinare né acchiappare. Claudicando, con la sporta in una mano e la stampella nell’altra, si chiuse dietro il portalone del cortile e salì in terrazzo. Appoggiato a braccia larghe su un balcone di pietre a secco, si mise ad aspettare l’arrivo della famiglia del segretario. Era quasi l’ora di pranzo, il tempo gli era volato via senza che se ne accorgesse, come quando andava al cinema. Si affacciò oltre il parapetto per respirare l’alito caldo dello stradone bitumato da poco. Ancora non si vedeva nessuno. Solo il cane di Zoseppe Virdarolu si divertiva a rincorrere alcune galline che si erano perse per strada.
IN NEGOZIO
«Vrades pro sempere!», fratelli per sempre: questo si giurano Zosimo e Nemesio il giorno in cui quest’ultimo lascia il paesino di Crapiles per andare a iscriversi all’università.
Zosimo, che a Crapiles ci è nato, rimarrà a fare il pastore: come suo padre, come il padre di suo padre. Sebbene così diversi, i due ragazzi sono stati amici dal giorno in cui la famiglia di Nemesio è arrivata in paese dal «continente». Ed è stato proprio il piccolo forestiero, coi riccioli che sfuggivano da sotto il cappello foderato di pelliccia e «due occhi color prugna acerba», a staccare da una grondaia una lunga «spada di ghiaccio», a spezzarla e a regalarne una metà a Zosimo, che lo guardava stupefatto: «Questa è la spada del generale inverno,» ha dichiarato con la serietà di cui sono capaci i bambini «che si divide solo con un nuovo amico!».
Da quel momento sono stati inseparabili: Zosimo ha portato Nemesio a casa sua, dove lo hanno accolto come un figlio, gli ha insegnato a mangiare formaggio di pecora con il pane crasau, e a cercare nei boschi i nidi dei colombacci. Nessun dubbio, nessun sospetto, nessun cattivo pensiero può scalfire nell’animo puro di Zosimo l’amore per l’amico. Così come nessuna malalingua potrebbe gettare un’ombra su quello per la bella Columba, di cui fin da piccolo è innamorato e che sta per diventare sua moglie.
Dopo la partenza di Nemesio le loro strade si divideranno, ma solo per tornare a incrociarsi molti anni dopo: e allora, cadute le maschere, scoppierà il dramma.
In questo romanzo Niffoi ci racconta con mano sicura una vicenda di amore e di amicizia che conferma le sue straordinarie doti di narratore di storie, anzi, di vero e proprio cantastorie: uno di quelli ancora capaci di incantarci con una fantasia lussureggiante – e con la musica di una lingua potentemente suggestiva.