Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu
- Scritto da Effe_E
Con uno stile asciutto e a tratti ironico Lussu mette in scena una spietata requisitoria contro l'orrore della guerra senza toni polemici, descrivendo con forza e autenticità i sentimenti dei soldati.
Incipit
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Alla fine maggio 1916, la mia brigata – reggimenti 399° e 400° – stava ancora sul Carso. Sin dall’inizio della guerra, essa aveva combattuto solo su quel fronte. Per noi, era ormai diventato insopportabile. Ogni palmo di terra ci ricordava un combattimento o la tomba di un compagno caduto. Non avevamo fatto altro che conquistare trincee, trincee e trincee. Dopo quella dei «gatti rossi», era venuta quella dei «gatti neri», poi quella dei «gatti verdi». Ma la situazione era sempre la stessa. Presa una trincea, bisognava conquistarne un’altra. Trieste era sempre là, di fronte al golfo, alla stessa distanza, stanca. La nostra artiglieria non vi aveva voluto tirare un sol colpo. Il duca d’Aosta, nostro comandante d’armata, la citava ogni volta, negli ordini del giorno e nei discorsi, per animare i combattenti.
Il principe aveva scarse capacità militari, ma grande passione letteraria. Egli e il suo capo di stato maggiore si completavano. Uno scriveva i discorsi e l’altro li parlava. Il duca li imparava a memoria e li recitava, in forma oratoria da romano antico, con dizione impeccabile. Le grandi cerimonie piuttosto frequenti, erano espressamente preparate per queste dimostrazioni oratorie. Disgraziatamente, il capo di stato maggiore non era uno scrittore. Sicché, malgrado tutto, nella stima dell’armata, guadagnava più la memoria del generale nel recitare i discorsi che il talento del suo capo di stato maggiore nello scriverli. Il generale aveva anche una bella voce. A parte questo, egli era abbastanza impopolare.
In un pomeriggio di maggio, ci arrivò la notizia che il duca aveva disposto, in premio di tanti sacrifici sofferti dalla brigata, di mandarci a riposo, nelle retrovie, per alcuni mesi. E poiché la notizia era stata seguita dall’ordine di tenerci pronti per ricevere il cambio da un’altra brigata, essa non poteva essere che vera. I soldati l’accolsero con tripudio e acclamarono al duca. Essi s’accorgevano finalmente che vi era qualche vantaggio ad avere per comandante d’armata un principe di casa reale. Solo lui avrebbe potuto concedere un riposo così lungo e lontano dal fronte. Fino ad allora, i turni di riposo li avevano passati a pochi chilometri dalle trincee, sotto il tiro delle artiglierie nemiche. Il cuoco del comandante la divisione aveva detto all’attendente del colonnello, e la voce si era diffusa in un baleno, che il duca voleva che il riposo lo si passasse in una città. Per la prima volta, durante tutta la guerra, egli cominciava a diventare popolare. Le voci più simpatiche corsero subito su di lui, e la notizia ch’egli si fosse seriamente disputato con il generale Cadorna, per difendere la nostra brigata, fece, accreditata, il giro dei reparti.
La brigata ricevette il cambio e, la notte stessa, scendemmo in pianura. In due tappe fummo ad Aiello, piccola cittadina, non lontana dalle vecchie frontiere.
La nostra gioia non aveva limiti. Finalmente, si viveva! Quanti progetti in testa! Dopo Aiello, sarebbe venuta la grande città. Udine, chi sa?
Entrammo ad Aiello, all’ora del primo rancio. In testa, era il mio battaglione, il 3°, che marciava con la 12a compagnia in testa.
La 12a era comandata da un ufficiale di cavalleria, il tenente di complemento Grisoni. Egli era stato ufficiale d’ordinanza del nostro comandante di brigata. Morto questi, in seguito ad una ferita di granata, egli era voluto rimanere nella brigata e prestava servizio nel mio battaglione. Come ufficiale di cavalleria, non poteva essere assegnato ad un reparto di fanteria; ma il comandante generale della cavalleria gli aveva accordato un’autorizzazione speciale, con il diritto di conservare ordinanza e cavallo. Egli era conosciuto in tutta la brigata. Il 21 agosto del ‘15, con quaranta volontari, aveva attaccato di sorpresa e conquistato «il dente del groviglio», solida trincea avanzata, difesa da un battaglione di ungheresi. L’azione era stata di un’audacia estrema. Ma egli era divenuto celebre per un’altra impresa. Una sera, mentre stavamo a riposo, dopo aver bevuto e frammischiato, senza eccessiva misura, alcuni vini di Piemonte, a cavallo, era penetrato, egualmente di sorpresa, nella sala di mensa, in cui pranzava il colonnello con gli ufficiali del comando del reggimento. Egli non aveva pronunciato una sola parola, ma il cavallo, che sembrava conoscere perfettamente le gerarchie militari, aveva lungamente caracollato e nitrito attorno al colonnello. Per questo fatto, diversamente apprezzato, poco era mancato che non fosse rimandato alla sua Arma.
Il battaglione sfilava, al passo, di fronte alla piazza del municipio. Là, erano il comandante della brigata, il comandante dei reggimento e le autorità civili della città.
La compagnia di testa, per quattro, marciava, marziale. I soldati erano infangati, ma quella tenuta da trincea rendeva più solenne la parata. Arrivato all’altezza delle autorità, il tenente Grisoni si drizzò sulle staffe e, rivolto alla compagnia, comandò:
– Attenti a sinistra!
IN NEGOZIO
Scritto nel 1936, apparso per la prima volta in Francia nel '38 e poi da Einaudi nel 1945, questo libro è ancora oggi una delle maggiori opere che la nostra letteratura possegga sulla Grande Guerra.
L'Altipiano è quello di Asiago, l'anno dal giugno 1916 al luglio 1917. Un anno di continui assalti a trincee inespugnabili, di battaglie assurde volute da comandanti imbevuti di retorica patriottica e di vanità, di episodi spesso tragici e talvolta grotteschi, attraverso i quali la guerra viene rivelata nella sua dura realtà di "ozio e sangue", di "fango e cognac".
Con uno stile asciutto e a tratti ironico Lussu mette in scena una spietata requisitoria contro l'orrore della guerra senza toni polemici, descrivendo con forza e autenticità i sentimenti dei soldati, i loro drammi, gli errori e le disumanità che avrebbero portato alla disfatta di Caporetto.