La partita mai giocata e il campione che sfidò la dittatura
La storia del centravanti della nazionale cilena che negli anni '70 si oppose alla dittatura e di una partita mai giocata che portò ai mondiali i cileni dopo il golpe di Pinochet.
Di Roberto Ecca
C’è stato un momento verso la metà degli anni 70, in cui calcio e politica andavano di pari passo, per divenire, in certi casi, un tutt’uno. Il culmine si ebbe nel 1973, alla vigilia del mondiale in Germania, e precisamente nello spareggio per il sedicesimo e ultimo posto disponibile per partecipare al torneo, tra Cile e Urss. In Cile, appena quindici giorni prima, il generale Augusto Pinochet, con le mai chiarite ma sicure complicità degli Stati Uniti, rovesciò il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, instaurando un regime totalitario e incarcerando migliaia di politici, giornalisti, oppositori, sportivi e rinchiudendoli nello Stadio Nacional a Santiago.
La partita d’andata giocata a Mosca allo stadio Lenin, oggi Luzhniki, terminò con il risultato di 0-0. Il ritorno, in programma il 21 novembre, si sarebbe dovuto svolgere allo stadio Nacional di Santiago del Cile, ma la squadra sovietica si rifiutò di partire in quanto si vide negare la richiesta di giocare in campo neutro dalla FIFA, il massimo organo del calcio mondiale: Noi- affermavano i sovietici- non giocheremo in un stadio dove vengono quotidianamente rinchiuse e torturate centinaia di persone.
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La FIFA, preso atto del rifiuto della compagine sovietica a partire per il Cile, mandò una delegazione allo stadio per accertarsi se davvero nell’impianto ci fossero davvero tante persone rinchiuse. Ma l’apparato posto in essere da Pinochet ripulì tutto, o meglio, occulto tutto e non venne trovata nessuna traccia dei detenuti e delle famigerate camere di tortura. La partita, se così può essere definita ha del surreale in quanto in campo c’è solo la squadra cilena che, seppur per l’assenza dei sovietici sarebbe stato un 2-0 a tavolino, volle segnare un gol simbolico per “ratificare” la loro presenza al mondiale tedesco.
Prima della partenza per la Germania il dittatore cileno volle incontrare al Palacio de la Moneda, la residenza del presidente, la squadra per una saluto e una stretta di mano. Dopo che il capitano della squadra presentò uno ad uno i suoi compagni a Pinochet, arrivo il turno del bomber della squadra che inaspettatamente non tese la mano per stringerla al tiranno: il suo nome era Carlos Caszely. Soprannominato “il re del metro quadro” per la sua capacità di liberarsi degli avversari in un fazzoletto di terreno, terzo miglior marcatore della nazionale, giocò in patria nelle file del Colo Colo e in Spagna nel Levante e nell’Espanyol. Forte e fiero oppositore del regime, di idee socialiste già in gioventù e vicino al partito di Unidad Popolar di Allende, Caszely diventò ben presto inviso al regime, divenendo simbolo di quel Cile che non volle piegarsi alla dittatura. Fece della sua vita, oltre quella calcistica, una lotta continua contro l’oppressore e diventando un eroe in patria anche per questo gesto forte, fortissimo verso il neo dittatore. Fu uno dei principali sostenitori nella campagna contro la dittatura per il referendum del 1988 per approvare un ulteriore mandato al generale Pinochet o per porre fine al suo regime. Vinse il NO e finalmente dopo 15 anni il Cile tornò ad essere una democrazia. Tra i tanti video e proclami diffusi durante campagna per il voto, uno in particolare colpì molto l’opinione pubblica: in esso c’era una signora sulla sessantina che parlava del periodo in cui era stata arrestata e torturata dalla Dina, la polizia segreta del regime. Ad certo punto apparve in video Carlos Caszely che abbraccia la donna: la signora si chiamava Olga ed era sua madre. Adesso Caszely fa il giornalista sportivo ma agli occhi di tutti i cileni rimarrà sempre il campione che osò sfidare Pinochet.