Nell’Iran della rivolta dove la politica diventa rabbia
Le proteste degli ultimi giorni, tra crisi economica e limitazioni della libertà, sono alimentate da giovani che vivono secondo stili di vita lontanissimi da quelli imposti dalla Repubblica islamica.
Per capire quello che sta succedendo in Iran non è forse necessario essere in piazza nelle tante città dove è scoppiata una rivolta che, nonostante le tante speculazioni politiche internazionali, al momento sembra avere come uniche motivazioni la rabbia per la situazione economica e la limitata libertà personale consentita nella Repubblica islamica.
Per capire quello che succede è forse più utile trovarsi altrove, ad esempio la sera del primo gennaio a Darband, quartiere giovanile ai piedi della montagna di Teheran (il Monte Tochal), dove di solito la “meglio gioventù” della capitale si raduna la sera per una passeggiata, una cena e una shisha in compagnia, dove gli abitanti della metropoli iraniana sono soliti portare gli ospiti. Darband è una sequenza di locali e ristoranti tutti simili, col butta dentro che rigorosamente in farsi cerca di convincere la clientela a provare le sue delizie, ma oggi a differenza del solito, dicono i teherani, sul sentiero con tanto di ruscello che porta su fino alla cima della montagna dopo una camminata di circa due ore, non c’è quasi nessuno, nonostante sia l’ora che da noi sarebbe dell’aperitivo e poi di cena.
Molti locali sono rimasti chiusi, altri completamente deserti, e la motivazione che danno è sempre la stessa: sono tutti in piazza a manifestare.
L’università di Teheran e la zona circostante vedono uno schieramento di polizia senza soluzione di continuità, con inquietanti camionette nere equivalenti dei nostri cellulari che sfrecciano sulle preferenziali del centro della capitale, piene di militari che non sembrano nemmeno troppo tesi e sorridono e scherzano da un automezzo all’altro: del resto non sono nemmeno le tre del pomeriggio, i momenti difficili arrivano dopo le 7, quando migliaia di manifestanti si radunano nella zona e cominciano gli scontri, di cui comunque la città non reca traccia apparente.
Per capire la “rivoluzione” in corso bisogna forse andare nel quartiere armeno di Isfahan, in una serata qualunque, per vedere come qui un Iran diverso da quello degli Ayatollah sia già realtà: giovani vestiti all’occidentale, con stili che ricalcano almeno in parte quelli del rocker, del mod o del rapper, sfrecciano su moto e scooter con giubbotti di pelle, ciuffi a banana o a schiaffo degni dell’America anni ’50 e in molti capannelli si diffonde nell’aria, tra i tanti odori, quello della Marijuana, vietatissima in Iran come tutte le sostanze da “sballo”, in primis l’alcol.
Altra cosa da fare, per capire l’Iran di oggi, è andare la notte in santuari come quello dedicato all’Imam Khomeini, alla periferia sud di Teheran, un luogo sacro per gli sciiti, aperto 24 ore a disposizione dei fedeli dove, a differenza che nel passato (quando non era consentito), oggi dormono centinaia e centinaia di persone senza casa, con la religione che in qualche modo funge da supporto sociale ai più poveri.
Poveri che durante il giorno girano per la metropoli come nelle altre città iraniane, da Isfahan a Shiraz fino a Mashad, e magari la sera si aggiungono ai manifestanti “notturni”, nella speranza di un miglioramento delle loro condizioni di vita. Del resto, la Repubblica islamica aggiunge oggi a un tasso di disoccupazione del 12,5% circa, una situazione economica che costringe anche chi un lavoro ce l’ha a cercarne un altro: un stipendio alto da queste parti è intorno ai 400 euro mensili, e anche se il costo della vita non è paragonabile a quello europeo, il prezzo di un appartamento in vendita a Teheran può variare dagli oltre 2000 euro a metro quadro del ricco Nord ai 1000 della periferia sud più povera, una cena in un buon ristorante parte dai 6-7 euro a persona a salire e il prezzo di generi molto popolari nel paese, come il tabacco, è praticamente raddoppiato negli ultimi mesi.
Così gli iraniani hanno adottato una loro peculiare versione della “sharing economy”, con servizi come Snapp, un omologo low cost di Uber usatissimo nelle grandi città, con corse che spesso non arrivano a un euro di costo (circa 50mila Rial): chiunque abbia un’automobile può scaricare la app e diventare subito autista, cercando di arrotondare il magro stipendio che per i giovani (e non solo) può anche scendere sotto le 200 euro mensili, per 8 ore di lavoro quotidiano in un negozio o come cameriere di un ristorante.
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Insomma, se mai esistesse il “complotto” internazionale di cui parla il governo iraniano, con nemici come USA e Arabia Saudita che soffiano sul fuoco della protesta e il presidente Trump in prima fila, è certo che questo andrebbe ad innestarsi su una situazione già esplosiva, senza nemmeno voler ricordare le “solite” limitazioni di libertà della Repubblica islamica, a partire dalla situazione femminile, tra velo e matrimoni combinati che sono stati numerosi ancora negli ultimi 15 anni, perfino nelle grandi città, fino alla scarsa libertà di viaggiare di giovani che sognano l’Europa e spesso l’Italia, per molti la meta più amata con Roma e Milano in pole position dei sogni.
Per poter uscire dal paese, specie se la destinazione è il vecchio continente, bisogna avere un conto in banca con molti soldi dentro, un lavoro non precario, una lettera di invito da parte degli “ospiti” europei e possibilmente anche una buona raccomandazione negli uffici amministrativi, altrimenti la richiesta di visto rischia di venire respinta con perdite, nel timore di una emigrazione di massa dei giovani verso il luccicante occidente.
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I motivi di una rivolta ci sono tutti, e la CIA potrà anche avere un ruolo, ma di sicuro non sono gli americani ad aver creato le situazioni descritte: i giovani come quelli che manifestano sono occidentali nel look, nei gusti (ascoltano musica elettronica e Dj locali “proibiti”) e anche nello stile di vita, specie quando si trovano tra le mura casalinghe, visto che il mercato nero offre tutto, dall’alcol (50 euro in media per una bottiglia di acquavite) alle droghe, con l’oppio che continua ad essere popolare nel paese, Islam o no. Hanno uno stile occidentale ma non vogliono diventare occidentali, mantengono la loro cultura e in fondo, senza estremizzarla, la loro identità religiosa, e se ad esempio si chiede a molti giovani iraniani sotto i 30 anni se sposerebbero mai una donna divorziata, la possibilità viene esclusa categoricamente.
L’onda di oggi, non più verde e al momento senza leader, è anche una risposta politica a quello che è successo dopo il movimento del 2009: la Rivoluzione di allora, infatti, non ha preso il potere ma ha portato al governo i riformisti di Rouhani, percepito dai cittadini come lo sblocco logico di quella esperienza, ma oggi se si parla con gli elettori dell’attuale presidente, specie giovani, si trova soprattutto disillusione. Il presidente ha promesso che i prezzi sarebbero calati e sono aumentati, il presidente ha promesso che avremmo avuto più libertà e non abbiamo libertà, il presidente ha promesso che la situazione delle donne sarebbe migliorata e non è migliorata. Insomma, Rouhani sembra avere deluso, sia per incapacità o perché imbrigliato, come pensano molti osservatori, dal potere eccessivo del clero, e quando la politica fallisce spesso resta solo la rabbia, quella che oggi va in scena nelle piazze di Teheran e di tutto l’Iran.