Lou Reed: i dieci modi per ricordarlo
- Scritto da Effe_Pi
Il grande songwriter americano in dieci tra canzoni, album, film e interviste della sua lunga straordinaria carriera.
La morte di un artista come Lou Reed è sempre un po’ meno definitiva delle altre. Anzi, di solito è un’occasione per ascoltare la musica, rivedere i film, rileggere i libri, riscoprire il defunto, anche se in questo caso per molti non è necessario. Insomma, invece di scrivere coccodrilli imprecisi sulla storia di “maudit” del songwriter newyorkese sarebbe meglio concentrarsi sulla sua opera e riscoprirla, visto che con tutta la spazzatura che gira rischia di essere sommersa e lui, come ha scritto giustamente qualcuno, potrebbe essere ricordato semplicemente come “quello della colonna sonora di Trainspotting”.
Allora, ecco le dieci “cose” reediane che abbiamo amato di più. Per ricordare, ma senza lacrime più o meno sincere o prese di posizione ridicole, da quelle dei super fan depositari della verità a quelle di chi ha sentito una volta “Walk on the wild side” al karaoke bar e ora all’improvviso diventa il maggior esperto vivente di Velvet Underground.
1 – Berlin (album) Disperante e lirico, malinconico e malato ma terribilmente poetico, è forse la massima vetta autoriale di Lou Reed (per quante ce ne siano), ed è uno dei pochi dischi capaci di far venire le lacrime agli occhi in un misto di tristezza e felicità anche dopo millemila ascolti, con il terribile “film per le orecchie” della tragica storia familiare di Caroline e Jim.
2 – Sweet Jane (canzone) Inserita in quello che molti considerano l’album meno importante dei Velvet (Loaded, senza più John Cale e Nico) è una stupenda perla di epica rock’n roll, con la storia di Jack e Jane che sanno come “i bambini sono gli unici che arrossiscono e la vita è solo morire”. Splendida anche la versione live inclusa in “Rock n’roll animal”, con una lunga intro da brividi.
3 – Venus in furs (canzone) Dopo il marchese De Sade, Lou Reed e i Velvet. La canzone che probabilmente ha inventato il moderno BDSM, tra luccicanti stivali di cuoio, fruste e Severin totalmente sottomesso alla sua “mistress”. Non a caso riprende il titolo di un romanzo di Von Masoch, di cui in questa occasione Reed si dimostra degnissimo erede.
4 – White Light/White Heat (album) Mr. Reed inventa la musica noise, complici John Cale e tanto malessere metropolitano, in una New York dove violenza, eroina e nichilismo erano contrapposte ai colori vividi della West Coast hippie. Mollati Andy Warhol e Nico, i Velvet mostrano appieno il loro lato oscuro tra storie di transessuali lobotomizzati (Lady Godiva’s operation), luci bianche e calore bianco d’anfetamina e il delirio definitivo di “Sister Ray”, improvvisazione di 17 minuti su tre accordi che anticipa l’estremismo sonoro di “Metal machine music”.
5 – Hangin’ round (canzone) Se Transformer è sicuramente l’album solista più famoso di Lou Reed, questo è uno dei pezzi meno considerati del mazzo, tra Vicious, Perfect day, Walk on the wild side, Satellite of love. Eppure è uno dei rock meglio confezionati di Lou solista, su cui non si può fare a meno di muoversi e che contiene versi epici come quello su Janie che “fuma sigarette mentolate e fa sesso nella hall”.
6 – Blue in the face (film) Reed non ha avuto fama di attore come i colleghi-amici Bowie e Iggy Pop, ma questa partecipazione nel ruolo di se stesso al film di Wayne Wang su un negozio di sigari della Grande mela è imperdibile per qualsiasi fan. Mentre fuma, Lou spiega il suo rapporto “speciale” con New York e racconta come lo spaventino molto di più, ad esempio, posti come la Svezia, dove c’è un’alta percentuale di suicidi ma tutto funziona perfettamente.
7 – Coney Island Baby (album) Sempre troppo sottovalutato quest’album solista del 1975, che contiene capolavori come “Charley’s girl”, “She’s my best friend”, “Nobody’s business” e la magnifica title – track, dove Reed ricorda che “la città è un posto strano, qualcosa come un circo o una fogna”, ma per tutto, dai tradimenti degli amici ai rimpianti per ciò che si è fatto o non si è riusciti a fare, c’è un antidoto che si chiama “Glory of love”.
8 – New York (album) Reed la “butta” in politica, forse costretto dalla piega troppo drammatica che ai suoi occhi stavano assumendo la sua città e il suo paese verso la fine degli anni ’80. Lou ritrova Moe Tucker alla batteria (per paradosso ora è passata all’estrema destra del Tea Party) e in un album pieno di energia e rock classico abbatte il “pensiero unico” americano reaganiano degli anni ’80 (e non solo), quello dell’ordine, la ricchezza, il classismo e il razzismo, compreso quello degli “insospettabili” come Waldheim (segretario dell’ONU di cui fu scoperto il passato nazista) e Jesse Jackson, proprio in “Good evening Mr. Waldheim”.
9 – Un sordomuto in una cabina telefonica (intervista) Una testimonianza straordinaria del personaggio Lou Reed si trova in questa (ed altre) intervista – confronto – scontro con il giornalista musicale Lester Bangs, rockstar a sua volta, uno dei pochi a tener testa ai deliri del Lou anni ’70 e a riuscire addirittura a trasformarne i capricci e l’antipatia in pura letteratura. Reed viene definito, tra le altre cose, “un ciccione vagamente antipatico” che beve tutta la sera doppi Johnny Walker etichetta nera e le cui mani tremano continuamente. Qui si può leggere in versione originale, come ripubblicata dal “Guardian” due anni fa.
10 – VU (album) Raccolta postuma dei Velvet, degli anni ’80, viaggia tra inediti, pezzi poi riciclati da Reed nei suoi album solisti (da “Lou Reed” a “Transformer”) e fotografa la band nel momento della sua massima creatività, il 1969, con le versioni originali di pezzi poi diventati comunque celebri, da “I can’t stand it” a “Ocean”, da “Lisa Says” ad “I’m sticking with you”. Un capolavoro in parte involontario che può considerarsi, a tutti gli effetti, il quinto album dei Velvet.