Il paradiso degli innocenti - Parte prima
- Scritto da Luigi Citroni
Il paradiso degli innocenti - Parte prima - Un thriller che vi lascerà con il fiato sopeso.
Il paradiso degli innocenti - Parte prima
Il paradiso degli innocenti - Parte seconda
Il paradiso degli innocenti - Parte terza
Il paradiso degli innocenti - Parte quarta
Il paradiso degli innocenti - Parte quinta
Il paradiso degli innocenti - Parte sesta
Il paradiso degli innocenti - Parte settima
Il paradiso degli innocenti - Parte ottava
Il paradiso degli innocenti - Parte nona
È il 1997, io e Vinicio abbiamo trentacinque anni e siamo distesi sull’erba in cima a una collina.
È un pomeriggio di Maggio, il cielo è coperto da nuvole plumbee, cariche di pioggia, che navigano lente come vascelli dispersi in mezzo al nulla.
Le osservo assestarsi sopra le nostre teste, e sembra che con il loro insinuarsi e accavallarsi l’una sull’altra cerchino il perfetto incasellamento per dar voce dulcis in fundo alla loro furia.
Faccio presente a Vinicio dell’imminente arrivo di una tempesta ma lui non mi dà retta.
Guarda il cielo, socchiude gli occhi e aspira a pieni polmoni il fumo di una canna. -Non me ne frega un cazzo- dice -possono scendere Dio e i fottuti angeli da quelle nuvole che io rimango qua-.
Pochi istanti dopo tende la mano verso di me con il filtro ben saldo tra l’indice e il medio e mi invita a fumare. Non vorrei farlo, sono anni che non fumo e so bene a cosa potrei andare incontro ma accetto. La situazione lo richiede.
Faccio un primo tiro molto breve. È un modo come un altro per tentare un approccio cauto con qualcosa che non da piacere.
Sono nervoso così ne faccio altri due, uno più lungo dell’altro ma alla fine sento la gola irritarsi e in men che non si dica la tosse prende il sopravvento.
Il mio compagno rimane impassibile, non mi prende in giro come già successo in passato, ma ha una faccia rilassata, le braccia incrociate dietro la nuca, gli occhi chiusi e un sorriso appena accennato. Sembra essere in pace.
In un giorno di tiepida primavera il vento pare ci voglia coccolare.
Lo sentiamo scalare la collina dal versante opposto, fischiare sopra le nostre teste e scendere fino ai piedi della valle, dove un pineto filtra il suo impeto.
Nell’ostilità di un giorno tempestoso sento che paradossalmente quella collina è il posto migliore dove ripararsi nonostante Madre Natura ci mandi messaggi dal significato opposto, così decido anch’io di chiudere gli occhi e continuare a fumare.
A ogni boccata segue un conato. Letteralmente. Il sapore mi fa schifo, così come l’odore, ma mi sento giù di morale. Mi sento grigio, come il cielo sopra di me e voglio alterarmi.
-Lo sai quanta gente muore ogni giorno? - mi fa d’un tratto. -Ho letto un cazzo di articolo tempo fa, diceva che gli incidenti stradali e i suicidi sono nella top three insieme all’overdose. Le malattie, per esempio, il cazzo di cancro sembra che uccida meno…Cristo…te ne rendi conto? Sempre in quell’articolo c’era scritto che la gente in questo cazzo di pianeta si suicida ogni sessanta secondi. Hai capito? Cristo ogni minuto qualche stronzo da qualche parte nel mondo si uccide-.
Vinicio parla e mi mette ansia.
Il fatto è che sono sballato, non sono abituato a fumare e quindi mi basta poco e lui lo sa; ciò nonostante prosegue imperterrito con le sue elucubrazioni. Sembra non capire quanto questo discorso possa risultare pericoloso, al contrario continua a parlare con tono serafico, come se stesse raccontando di futilità.
-Ma tu, Cristo, non pensi che ci può essere un cazzo di errore? Che ci possa essere qualcosa che non funziona? E Se fossimo noi la parte malata del mondo? Come un cancro che si impossessa di una cellula, e che tutti i nostri atteggiamenti, il nostro vivere del cazzo non siano altro se non l’effetto di un male di cui noi e noi soltanto siamo la causa. Questa cosa mi manda hai matti. Noi siamo lo stesso male che cerchiamo di combattere -.
Lo ascolto ma non ho nessuna intenzione di rispondere. Decido di non badare più a lui. Sto vagando per lande sconosciute senza muovere un dito e non ho voglia di condividere il benché minimo pensiero.
-…alla fine ci vuole più coraggio a vivere che a morire. Cristo è fottutamente così- conclude.
Io e Vinicio abbiamo trentacinque anni in quel pomeriggio. Sulla cima di quella collina poco fuori il centro abitato aspettiamo qualcosa o forse qualcuno, ancora non mi è dato saperlo. So solo che l’aria è torbida così come i nostri pensieri.
Chi si nasconde nell’ombra?
Chi tace e osserva in silenzio per poi sorprenderci appena cala la notte?
Chi ci guida nella nostra caduta?
Ho bramato risposte a queste domande per un tempo difficile da definire, ma credo infine di aver trovato la giusta soluzione; il colpevole da indicare senza timore in un aula di tribunale.
Penso di aver intravisto quell’ospite inquietante a ora tarda, in un cumulo di bicchieri lavati dall’alcool.
Ho creduto di averlo riconosciuto quando nell’oscurità i suoi occhi bruciavano come fiaccole mentre il resto del mondo si assopiva in silenzio.
È stato allora che ho visto le sue pupille squarciare il velo della realtà e sondare il mondo terrestre con una rabbia senza pari. Sepolto in un angolo dove la luce non smuoveva molecole in subbuglio.
Al tempo non seppi ben definire quale fosse la sua natura, ma ero certo si trattasse di colui che ha tormentato la mia mente con domande di ogni genere, ogni giorno poco prima dell’alba, quando la notte si palesa in tutto il suo cupo splendore.
Chi si nasconde nell’ombra?
Dal cielo iniziano a scendere le prime gocce.
Il vento amico da qualche minuto ha smesso di soffiare, sembra essersi congedato. Credo persino di aver percepito l’esatto istante in cui ha abbandonato la collina.
Sono ancora sdraiato sul prato, sballato, ipersensibile ad ogni stimolo esterno.
Non sono mai stato così ricettivo. Mi sento in grado di mediare ogni messaggio trasmesso dalla natura, elaborarlo e renderlo fruibile per gli essere umani.
“È una sensazione fantastica” penso, e la vorrei condividere con qualcuno. Mi piacerebbe discuterne con Vinicio, sento il bisogno di parlarne con lui e spiegare per filo e per segno ciò che provo.
Sembra assurdo ma più ci penso, più trovo parole perfette da utilizzare e più dalla mia bocca non esce un gemito.
Provo a comunicare con gli occhi, così lo cerco attraverso lo sguardo ma sembra essere scomparso in mezzo all’erba. È in silenzio già da un pezzo, o almeno questo è ciò che i miei sensi distorti avvertono. Il fatto che abbia deciso di tacere non è un male, ma percepisco una certa dose di stanchezza nella sua assenza.
Di riflesso in maniera del tutto involontaria inizio a pensare e a immaginare un mondo senza di lui.
Ora che il respiro di Vinicio si confonde con il silenzio di quella collina sperimento l’angoscia relativa alla perdita. Alla sua perdita.
Intanto le prime gocce iniziano a bagnarmi il viso. Sono ancora poche e disordinate, e il loro contatto con il mondo è appena percettibile.
Il cielo e ancor più cupo di prima ed è chiaro che quelle prime lacrime fungano da monito.
- Mettiamoci al riparo- dico, ma lui sottolinea la volontà di non voler muovere un passo fino alla fine.
Tutto ciò mi sembra assurdo: il suo modo di fare, di parlare, il che inizia a darmi sui nervi. Così gli dico che non me ne frega niente delle sue trovate, delle sue esigenze da furioso, e che se le cose si fossero messe male non avrei esitato un solo istante ad andare via. Gli chiedo per l’ultima volta quali siano le sue intenzioni ma lui risponde dicendo che devo capire. Devo provare a capire la natura delle sue necessità. Dice che ha bisogno che la pioggia lavi via il male dalla sua pelle.
Sono confuso.
Lo guardo dritto in faccia e capisco che non scherza.
I suoi occhi sono vacui, e il viso non lascia trasparire nessuna emozione.
La mia rabbia d’un tratto si affievolisce. Capisco che lui è serio, ma allo stesso tempo non riesco a cogliere il significato nascosto dietro il suo atteggiamento.
Credo stia male. Non male fisicamente ma nell’anima.
Inizio a pensare che qualcosa in lui si sia rotto, sgretolato come la creta.
Mentre penso guardo il cielo e le sue nuvole. Osservo il panorama circostante e mi perdo tra boschive vallate che puntano verso Nord, dove la foschia nasconde cime di aspro basalto.
Un panorama in cui pare non esserci nemmeno il più tiepido richiamo al genere umano.
Sembrano paesaggi mai esplorati. Luoghi capaci di rigettare la presenza dell’uomo come un organismo espelle un batterio. Un giaciglio primordiale tenuto sott’occhio da roccia millenaria incastrata in pareti scoscese e i suoi alberi.
Pochi chilometri più a valle, dalla cima di quella collina riesco a vedere i primi tetti e i radi fumi dei comignoli delle case del paese. Da quella prospettiva sembra che il centro abitato si limiti a un pugno di case fatiscenti, cinte da una catena di colline slavate.
Il mio occhio vaga ancora per un po’ attraverso il verde, ma un ombra che tra i pini si fa strada verso noi, cattura la mia attenzione.
- Arriva qualcuno Vinicio –
- Bene – risponde – è ora finalmente-.
Sorride mentre cambia posizione.
- Tu credi di essere pulito? Credi di essere in pace con la tua coscienza? – mi chiede.
Per un attimo rimango basito.
Non so bene cosa rispondere quindi cerco di glissare sull’argomento provando a utilizzare monosillabi evasivi. Forse per non dare importanza a tutto quello che di lì a poco avrebbe potuto dire, o forse per mascherare la paura che bussa sempre più forte alla mia porta.
- Vorrei che mi rispondessi decentemente invece di fare il finocchio. Invece di ragliare come un asino. Ti senti pulito? -
- E tu lo sei? – incalzo perentorio.
- No…perciò ringrazio la pioggia in questo giorno! Lo siamo stati tutti non è vero? Almeno una volta nella vita. – dice - te lo ricordi? Certo che te lo ricordi. Gli stronzi come te non dimenticano mai niente. Ti ricordi di Lucio sì?! Ti ricordi di lui…dimmelo-.
“Che gran figlio di puttana” penso.
Non vorrei dargli la soddisfazione di tacere, ma giuro non trovo le parole per rispondere. Non so che fare poiché l’ombra che prima si muoveva tra gli alberi, ora è ferma e immersa nella radura ci osserva.
Con un movimento repentino Vinicio solleva la schiena e con le braccia àncora il busto alle ginocchia. Allora mi guarda fisso negli occhi e dice: - Sono stato io. È colpa mia Carmine- dopo un sospiro carico di rammarico continua a borbottare: – avevi visto bene quel giorno nel bosco. Per anni ti ho fatto credere di essere pazzo, ma non lo eri. I tuoi sensi non ti avevano tradito-.
Quelle parole mi lacerano come proiettili a punta cava. Mi destabilizzano a tal punto che mentre guardo quell’ombra sovrastare il verde più a valle, nella mia mente il tutto sembra comporsi come un puzzle.
Intanto alcuni tuoni squarciano il cielo così come i ricordi la mia mente.
Le prime segnalazioni arrivarono nell’autunno del 1991.
Per giorni le denunce sembrava si accalcassero sulle nostre scrivanie come fedeli in chiesa la notte di Natale. Da che ho memoria non ne avevamo mai ricevute così tante contemporaneamente, ed erano per lo più sporte da titolari di medie e grandi imprese agricole della zona, che raccontavano di scie di sangue lungo tutto il perimetro delle aziende, apparse dall’oggi al domani.
Una volta in loco per i primi sopralluoghi, pensammo subito fosse una colossale perdita di tempo, poiché nessuno riusciva a darci testimonianze attendibili: supponevano si trattasse di possibili furti imputati per lo più ad allevatori limitrofi, con i quali non si avevano buoni rapporti. Anche noi di rimando credemmo appunto si trattasse di semplice abigeato e che il sangue fosse un atto minatorio, forse un modo come un altro per scoraggiare chi avesse avuto intenzione di rivolgersi alla polizia. Ma in tutto ciò c’era una nota stridente: nessuno denunciò mai la scomparsa di alcunché. In centrale ci si chiedeva: come può trattarsi di furto se in fin dei conti non è stato rubato niente? E poi perché il sangue? Il commissario allora dilapido ogni dubbio dandoci un'altra manciata di giorni per cercare indizi, poi avremmo dovuto archiviare. Non c’era niente a supportare il caso, nessuna prova e forse nemmeno la volontà da parte della procura di aprire un inchiesta. Così io e Vinicio fummo incaricati di far cadere nel dimenticatoio e archiviare ogni denuncia relativa al fatto fino ad allora presa in considerazione.
Girammo ancora per un po’ di tempo, visitammo aziende, caseifici, fattorie, lo facemmo in modo scrupoloso ma sembrava non riuscissimo a cavare il ragno dal buco. Molti degli interrogati ci parlarono persino di un animale che aveva fatto la tana nei pressi. Un essere simile a un orso bruno che si aggirava per le campagne durante la notte. Ma ciò non era possibile, almeno non in Sardegna. Al tempo si formarono persino compagnie barracellari armate fino ai denti, atte a dare la caccia a una bestia che naturalmente non venne mai trovata.
Sapevamo che avremmo dovuto chiudere il caso al più presto, e in cuor nostro forse lo desideravamo, ma allo stesso tempo non riuscivamo a darci una spiegazione sul perché prendersi la briga di inzuppare di sangue le campagne.
Non so se fu per la nostra ostinazione o per pura e semplice curiosità che, il giorno prima di ultimare il rapporto, accettammo di sentire un ultimo possibile testimone. Si chiamava Saverio Bompiano, allevatore di settantadue anni residente a Santa Croce: zona di montagna, pascoli ritagliati tra le rocce dove solo le capre avevano facile accesso.
- Non so cosa ho visto, ma di certo non si trattava di un animale- ci disse Bompiano - ho sentito delle voci giù in paese che parlavano di questo sangue e di un animale che cacciava nei nostri territori, allora ho voluto appostarmi. Ho iniziato a dormire in campagna, in una casetta che ho vicino al fienile e così una notte sento dei rumori, come pietre che si muovono. Ho preso il fucile, mi sono affacciato alla finestra e l’ho visto. Ho visto un uomo alto come una montagna che girava come un’anima in pena da una parte all’altra. Allora sono uscito e ho gridato che ero pronto a sparare. Quell’uomo si è fermato ed è rimasto a guardarmi immobile. Io continuavo a urlare che sparavo ma quello non si muoveva. È rimasto a fissarmi non so per quanto, poi è scomparso nel buio. All’alba tutto era pieno di sangue-.
Bompiano non mentiva. I suoi occhi erano iniettati di paura e a ogni parola tremava come una foglia.
Il commissario, nonostante la nostra insistenza, ci disse di non dare adito alle voci di uomini di montagna e ci obbligò comunque a chiudere il caso.
Mesi dopo fummo costretti a riaprirlo.
Gli stessi che denunciarono il sangue tempo prima, si ripresentarono da noi con il terrore stretto in mano e nuove testimonianze che parlavano di urla, pianti e canti strozzati. Dicevano fosse impossibile capire da dove provenissero con certezza e che pareva fossero cantilene che si libravano nell’aria come lamenti di fantasmi. Alcuni dicevano fosse come un sussurro proveniente da sotto terra, altri affermavano con certezza che si trattasse di pianti disperati di bambini intrappolati in fondo a un pozzo. Altri ancora parlavano di una canzoncina che recitava queste parole: “Chi si nasconde nell’oscurità? Gesù bambino ci salverà o l’uomo nero ci ucciderà!”.
La magistratura, date le circostanze, fu costretta a mobilitare unità cinofile, elicotteri e squadre speciali, che rastrellarono le campagne nei pressi di Santa Croce da cima a fondo.
Fu così che in dieci fattorie diverse i cani scovarono da sotto terra dieci casse di legno con all’interno altrettanti cadaveri di ragazzi immersi nei loro escrementi, di età compresa tra i nove e i sedici anni.
Trovammo per ognuno una bombola di ossigeno, mozziconi di pane e bottigliette di succo di frutta, con tutta probabilità lasciati affinché una volta sotterrati, potessero sopravvivere per qualche giorno.
Il medico legale constatò per tutti una morte dovuta agli stenti, e al contrario di ogni aspettativa non venne riscontrato nessun segno di violenza; tutto ciò purtroppo non giustificava il sangue che la scientifica confermò essere umano.
Giorni dopo, una volta diffusa la notizia, il commissariato di Cagliari inoltrò al nostro ufficio denunce di adolescenti scomparsi mesi prima nel sud Sardegna, cinque ragazze e cinque ragazzi, proprio come quelli trovati nelle campagne di Santa Croce. Io e Vinicio ci mettemmo dunque subito in contatto con loro per avere ulteriori particolari, ma al telefono ci dissero solo che le ricerche andarono avanti per settimane dopo le denunce, e che alla fine anche a causa di un inspiegabile disinteresse da parte di alcuni capoccioni, furono costretti a mettere un punto definitivo al caso. Quei ragazzi erano scomparsi senza lasciare traccia. Punto.
Rimanemmo delusi dalle poche informazioni ricevute, ma in conclusione ci parlarono di una miniera nella Trexenta chiusa da pochi mesi poiché considerata infestata. Ci dissero che i minatori iniziarono a sentire urla e cantilene sospirate nel cuore della notte, e che le denunce sporte da quest’ultimi risultarono essere molto simili a quelle ricevute dal nostro dipartimento.
La polizia locale trovatasi tra le mani qualcosa di troppo grande, non seppe che spiegazioni offrire né agli operai né ai sindacati, e l’idea di inoltrarsi all’interno alla ricerca di chissà cosa era fuori discussione. Imboscarono il tutto e lasciarono che uomini di chiesa, preti e esorcisti, dopo aver benedetto il posto, dessero l’ordine di chiudere e isolare la zona per chilometri.
Pochi giorni dopo riuscimmo ad ottenere il permesso per riaprire la cava.
- Vinicio cosa cazzo significa sono stato io? – chiedo in preda a un principio di panico.
Sono ancora notevolmente sballato, e ciò mi spinge ad andare fuori controllo. Sapevo non avrei dovuto accettare quello spinello.
- Siamo arrivati al dunque Carmine – risponde il mio collega – stiamo pagando per tutti i nostri errori-.
- Di quali errori parli? Brutto stronzo…per anni ho pensato di essere pazzo… io lo sapevo…ero certo di quello che avevo visto e sentito nel bosco. Perché mi hai fatto questo? –
- I figli di Lilith Carmine. I figli di Lilith…io…ho dato loro quello che chiedevano…mi dispiace. Ricordati queste parole. –
Vinicio è sul punto di piangere mentre parla. Vorrei chiedere spiegazioni ma ho paura e la lingua si ritrae lungo il palato. Il mio sguardo rimane fisso su quella figura che ancora sta immobile. Vorrei fare un cenno, chiamarla o metterla in allerta, ma non ci riesco. Sono totalmente paralizzato.
- Il paradiso degli innocenti. Ci abbiamo camminato sopra in mezzo al bosco. Ci hanno condotto là quel giorno ma tu al tempo non dovevi sapere- dice per concludere.
Come un fulmine a ciel sereno affiorano i ricordi. La paura d’un tratto si trasforma in rabbia, così metto mano alla mia calibro 38 e come se avessi ritrovato l’uso della parola dico: - Ora gli sparo, e dopo sparo pure a te! -.
Mentre la mia mano stringe la pistola, ricordo che mettere in piedi una task force per quella che sarebbe stata la nostra missione giù per la miniera, non fu affatto semplice.
Il nostro commissario Lucio Andreolli tentò di dissuaderci in ogni modo. Ci diceva di lasciar perdere, di scaricare il tutto alle unità di Cagliari che avevano molti più uomini e mezzi a disposizione, ma noi naturalmente non accettammo, e gli facemmo presente che qualcosa o qualcuno di pericoloso era arrivato fino a noi, perciò non potevamo abbandonare il caso. Credo che se avesse potuto ci avrebbe ordinato di desistere, ma le pressioni dall’alto iniziavano a essere sempre più pesanti per lui.
Quindi dopo aver superato il confine della provincia di Oristano, e passato in schiera sterminati campi di carciofi, la via per i monti ci si presentò dinnanzi come se stesse aspettando da un momento all’altro di essere percorsa.
Sopra di noi gli elicotteri ronzavano intorno al perimetro come mosche con lo sterco, mentre al passo di formichine operose risalivamo il monte fino alle miniere.
Questo è dominio del Signore. La terra sacra su cui si cammina non è dimora del malvagio diceva la targa affissa sul legno che sbarrava la miniera.
Avevamo ottenuto il permesso di liberare l’ingresso, ma queste parole incise con inchiostro indelebile sarebbero dovute tornare al proprio posto una volta finito. Ordini del Vaticano ci dissero.
In men che non si dica una squadra speciale fece saltare la barriera e subito dopo si addentrò.
Per più di mezz’ora il silenzio fece da padrone assoluto.
Nell’attesa la scientifica perlustrò la zona da cima a fondo e sorprendentemente rilevò del sangue umano spalmato su massi e arbusti nel raggio di un centinaio di metri.
Era una scena già vista. Iniziammo a pensare dunque non potesse trattarsi di un caso, e che il sangue potesse avere un collegamento con quello trovato nelle campagne di Santa Croce.
Ancor prima che giungessimo a una conclusione, dal fondo della miniera i corpi speciali riportarono alla luce dieci cadaveri. Cinque ragazzi e cinque ragazze, legati a due a due.
Ciò che ci si presentò davanti fu uno spettacolo raccapricciante.
I corpi erano ormai in stato di decomposizione, ciò nonostante un particolare spiccava su tutto il resto: un cadavere di ogni coppia era smembrato.
Distesi in terra come trofei dopo una ricca battuta di caccia, questi sembravano gusci vuoti. Involucri ripuliti con cura da ogni organo interno.
Mentre osservavamo gli uomini della scientifica all’opera, nelle nostre menti qualcosa prendeva forma.
Pensavamo che il sangue avesse di certo un significato ben preciso come ad esempio indicare un punto specifico dove seppellire i corpi, oppure poteva essere parte di una scenografia, una componente fondamentale di ciò che l’assassino avrebbe voluto comunicare.
Rimanevano ancora tante, troppe domande senza risposta come: perché legare i corpi? Perché smembrarli? Perché gettarli in fondo a una miniera mentre erano ancora vivi? Ma soprattutto che legame poteva mai esserci con un paese disperso tra le montagne chilometri più a nord?
Senza perdere tempo io e Vinicio montammo in macchina e partimmo alla volta di Santa Croce in modo da ripercorrere i nostri passi e cercare quel particolare che poteva esserci sfuggito, ma quando mandammo la comunicazione al commissario egli ci ordinò di tornare immediatamente in centrale.
Ubbidimmo.
Arrivati in commissariato egli ci disse: - Adesso basta! Avete giocato fin troppo, lasciate perdere! Questo caso ora avrà risonanza nazionale, non ci sarà bisogno di noi. Qui c’è altro lavoro da portare avanti, lasciate perdere questo maledetto ginepraio! –.
Come poteva Andreolli parlarci in quel modo? Nel giro di pochi giorni vennero ritrovati i cadaveri di venti ragazzini, come diavolo poteva chiederci di lasciar perdere?
- C’è tanto altro da fare qua- disse mettendo mano a dei fascicoli- ecco…un furto di arance, si parla di quintali di arance rubate, non è uno scherzo! Oppure guardate qua…due macchine incendiate nel giro di un mese! Questo…- proseguì battendo il dito sulla scrivania – questo è il nostro lavoro. Chi se ne occupa? I vigili urbani? Ecco…eccone un’altro…un caso di persecuzione, a Santa Croce. Un allevatore di settanta due anni, Bompiano Saverio. Di lavoro ce n’è quanto ne volete. Datevi da fare-.
Saverio Bompiano era un nome familiare, ma in un primo momento non ci feci caso. Accettammo di ripiegare su quel lavoro solo perché così avremmo avuto il pretesto per tornare a Santa Croce senza che il commissario ci facesse rapporto. Montati in macchina, nel giro di tre quarti d’ora fummo nuovamente immersi in quelle campagne.
Quando Bompiano ci aprì la porta di casa in un attimo riconoscemmo il suo viso, e ricordammo le circostanze del nostro primo incontro.
Dopo esserci riconosciuti a vicenda egli ci fece entrare visibilmente contento di rivederci.
- Sono felice di vedere proprio voi! È tornato! – disse senza troppi preamboli – quell’ombra è tornata a farmi visita-.
Mentre parlava carpimmo nei suoi occhi la stessa paura della prima volta. Tentammo in ogni modo di tranquillizzarlo, di farlo sentire al sicuro, dopo di che cercammo di capire chi fosse tornato.
- Quell’uomo. Quello del sangue nelle campagne. Arriva ogni mattina alle tre e rimane immobile davanti a casa mia-.
- Ce lo descriva- disse Vinicio.
- E’ nero come la morte. Nemmeno la luce dei lampioni riesce a illuminarlo. Purtroppo non sono mai riuscito a vedergli la faccia e non so dirvi nient’altro di lui-
- Perché non ha chiamato la polizia appena l’ha visto? – chiesi
– Ma io l’ho fatto- rispose- io chiamo ogni giorno, ma il centralino non riesce mai a mettermi in contatto con nessuno-.
Quella notte in comune accordo con il signor Bompiano, decidemmo di appostarci a pochi metri da casa sua, poiché avevamo motivo di credere che si trattasse dello stesso uomo che cosparse le campagne di sangue, e presumibilmente lo stesso che si occupò dell’occultamento di quei cadaveri.
Convinti che la casa dell’allevatore fosse tenuta sotto sorveglianza da qualcuno al di fuori di noi, prima dell’appostamento tornammo in centrale. Ne approfittammo per far provviste di caffè, ma soprattutto per scegliere una macchina diversa da quella utilizzata qualche ora prima.
Passammo gran parte della notte scrutando in ogni dove alla ricerca di possibili segnali, ma alla fine ancor prima che scoccassero le tre del mattino l’abbiamo visto sbucare dal nulla.
Apparve come uno spettro.
Non riuscimmo a capire effettivamente da che parte fosse arrivato ma da subito fu come se percepissimo nell’aria qualcosa di oscuro, di malvagio.
Era l’uomo più grande che avessimo mai visto, ma noi eravamo in due, con tanto di pistola e distintivo, lui invece oltre la sua mole sembrava non avesse armi.
Perciò quando lo vedemmo appostato dall’altro lato della strada, difronte alla casa di Bompiano, pensammo di aver vinto alla lotteria, poiché eravamo realmente convinti di averlo in pugno.
Aspettammo qualche minuto prima di uscire dall’auto. Volevamo comprendere quali fossero le sue intenzioni, osservare possibili movimenti, ma soprattutto capire se oltre a lui ci fosse qualcuno appostato che facesse da palo.
Rimase immobile per gran parte del tempo, fino a quando si chinò sull’asfalto e iniziò a tracciare dei segni con quello che apparentemente sembrava un gessetto.
Come finì di scrivere, Vinicio spinto da un impulso irrefrenabile accese i fari, dopo di che, pistola alla mano fummo fuori dalla macchina.
Non credo dimenticherò mai quel momento.
Noi urlavamo di stendersi a terra, di alzare le mani, ma quella montagna vestita di nero non muoveva un muscolo e immobile come una statua di sale iniziò a fissarci.
Il suo volto era coperto da un passamontagna, ma i suoi occhi…i suoi grandi occhi illuminati dai fari bruciavano come fiamme.
- Stenditi e metti le mani ben in vista- gli intimava Vinicio mentre a piccoli passi si avvicinava sempre di più.
Al contrario io rimasi ben saldo a pochi centimetri dalla macchina come stregato dal suo sguardo. Sentivo il mio collega esortarmi ad avanzare, ma quegli occhi, quelle fiamme che sembrava avessero preso possesso delle sue pupille, mi avevano falciato e reso vulnerabile come un neonato.
- Carmine vieni avanti, coprimi le spalle- continuava a ripetere Vinicio, ma come potevo farlo?
Non rimaneva che darmi una scrollata così iniziai a muovermi, proprio quando da dietro l’angolo una macchina imboccò la strada a tutta velocità, e come se fosse in un circuito sfrecciò nel viale fino ad arrivare a noi.
Vinicio rimase a osservare la vettura farsi avanti, e proprio quando avrebbe dovuto frenare lo travolse lasciandolo in fin di vita a bordo strada.
Fu in quel momento che mi diedi una vera e propria scossa, così aprii il fuoco contro la macchina e la sagoma nera fino ad allora inchiodata sulle sue gambe. Scaricai su di loro l’intero caricatore ferendo sia l’autista sia l’enorme uomo che con un inaspettato fare atletico montò nel posto passeggeri e insieme al suo complice svanì nella stessa ombra dalla quale sembrò essere arrivato minuti prima.
Subito dopo mi fiondai su Vinicio apparentemente privo di vita. Gridai aiuto in ogni modo possibile e in men che si dica mi ritrovai circondato dall’intera popolazione accorsa dopo aver sentito gli spari.
L’ambulanza arrivò in breve tempo, i paramedici caricarono il mio amico e volarono via a tutta velocità proprio come la macchina che avremmo dovuto bloccare.
Il signor Bompiano insistette affinché trovassi riparo a casa sua e ammetto avrei accettato con grande piacere, se non fosse stato per tutta la trafila che di lì in poi mi avrebbe visto protagonista tra ospedale e commissariato.
Dopo essermi ripreso fui in procinto di montare in macchina quando d'improvviso Bompiano disse: - il paradiso degli innocenti ha bisogno di un custode-
- Come scusi? – chiesi sovrappensiero.
- Guardi c’è scritto qua- disse l’allevatore indicando l’asfalto – il paradiso degli innocenti ha bisogno di un custode-.
“Ecco cosa ha scritto quel verme” pensai. Mi annotai quelle poche parole sul taccuino e convinto che il signor Bompiano potesse essere in pericolo lo feci salire in macchina e insieme ci dirigemmo in commissariato.
“Il paradiso degli innocenti ha bisogno di un custode…ma che cazzo significa?” iniziai a chiedermi da quel giorno.
Vinicio inizia a singhiozzare come un bambino mentre a denti stretti continua a ripetere “mi dispiace”. Io gli dico di stare zitto e di alzarsi, ma lui sembra aver perso le forze per reagire. La mia mano trema ma è ancora stretta alla pistola e sono pronto a tirarla fuori. Intanto l’ombra sembra abbia iniziato a muoversi, così d’istinto la estraggo e gliela punto addosso. – Fermo non ti muovere! – urlo con voce tremante.
- Mettiti in ginocchio! Le mani sopra la testa! Muoviti! –
Di nuovo immobile quella sagoma nera sembra mi stia fissando. Sento i suoi occhi addosso e ho paura, ma non devo assolutamente farla trapelare.
Muovo qualche passo in avanti barcollando. Sono ancora fottutamente sballato. Inizio a pensare che Vinicio abbia voluto farmi fumare di proposito.
Non so cosa fare. Un’alternativa sarebbe aprire il fuoco e ucciderlo, ma ancor prima di realizzare questa possibilità sento squillare il cellulare del mio collega.
Risponde, dopo di che rimane in silenzio per un paio di secondi.
- Carmine devi abbassare la pistola- mi dice.
- Chi cazzo era al telefono? -
- Non ha importanza abbassa la pistola-.
La cosa mi mette ancora di più in agitazione, sono certo che quell’ombra non abbia messo mano a nessun dispositivo in grado di poterci contattare. È immobile nella stessa identica posizione di prima. “Chi cazzo ha chiamato?” penso.
- Vinicio te lo chiedo per l’ultima volta…dimmi chi era al telefono-
- Che differenza vuoi che faccia? Non siamo soli Carmine…non lo siamo mai stati-.
Le parole di Vinicio mi gettano nello sconforto. Ho solo sei proiettili, anche volendo non basterebbero per farci uscire da questa situazione, ma non voglio abbassare la pistola. Penso che se le cose dovessero andar male, quell’uomo giù a valle viene via con me.
So di potercela fare. Sono sempre stato un buon tiratore. So che almeno lui posso ucciderlo.
Un lamento mi distrae. Sembra il guaito di un cane ferito e mi rendo conto proviene da Vinicio che di punto in bianco scoppia a piangere e chiede a Dio di aiutarlo. Il suo sguardo si perde in mezzo ai pini, dai quali un’altra figura si fa largo verso il verde.
È una ragazza, avrà sì e no sedici anni. Indossa un vestito giallo sporco di fango, ha capelli biondi e pelle bianca come se fosse porcellana. È bendata e le mani giunte all’altezza del bacino sembra siano legate.
Intanto il mio compagno non riesce a smettere di piangere e continua a implorarmi di abbassare la pistola; gli dico di chiudere la bocca proprio mentre l’ombra inizia a muoversi. A ogni falcata sembra far tremare la terra, e in pochi passi raggiunge la ragazzina, la fa inginocchiare e subito dopo estrae un coltello.
Il mio istinto mi spinge a urlare: - Fermo! Non fare un altro passo! Posa il coltello e lascia andare la ragazzina! –
Ma le mie parole sembra non sortiscano alcun effetto.
In quello stesso istante il telefono di Vinicio squilla nuovamente. Risponde, ma questa volta la chiamata è per me.
Vorrei piangere, vorrei buttarmi in terra e lasciarmi andare a un pianto disperato, per poi svegliarmi e capire che si è trattato solo di un brutto sogno, ma prendo il telefono e ancor prima che possa dire qualcosa una voce metallica inizia a parlare: - Sparagli. Dopo di che sparati-.
La conversazione finisce così come è iniziata, ovvero con me immerso in un silenzio attonito.
- Che cosa ti hanno detto? - mi chiede Vinicio tra un singhiozzo e l’altro.
- Ti devo uccidere- rispondo.