Attraverso la Patagonia e la Terra del Fuoco a bordo di una Volkswagen
Dodici giorni di viaggio attraverso le terre ai confini del mondo in Argentina, a bordo di una Golf a noleggio, tra strade difficili e improvvisi cambi di clima.
A cura di: Adriano Socci |
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Patagonia e Terra del Fuoco: luoghi dove lo spirito si nutre della grandezza del paesaggio, la libertà si fa ghiaccio immenso e il vento scuote l'anima. E poi, la Penisola di Valdes, un'esperienza unica dove si ha la possibilità di osservare elefanti e leoni marini, orche e le acrobatiche evoluzioni delle balene franche australi.
Primo giorno:
Trelew - Punta Tombo - Trelew (circa 240 km)
Lasciamo l'autunno piemontese quando ormai gli alberi si spogliano delle foglie e ci ritroviamo, dopo 21 ore di volo e 3 cambi d'aereo, a Trelew, nel bel pieno della primavera patagonica.
L'impressione, però, non è quella di essere arrivati in Patagonia. Il sole splende alto in cielo, fa' caldo e non c'è un fil di vento. Siamo, infatti, ad appena 1.500 km a sud di Buenos Aires ovvero, come si suol dire, alle porte della Patagonia. Siamo qui, dove incomincia la Patagonia, per vedere la fauna marina di due importanti riserve naturali, la Reserva Natural de Punta Tombo e dell'Area Protegida Provincial della Península de Valdés. Vivremo gli ambienti dei grandi paesaggi montani e dei maestosi ghiacciai e le atmosfere del clima inospitale per cui la Patagonia è famosa, in seguito, nel corso del nostro viaggio.
Ritirata l'auto presa a noleggio, dall'aeroporto partiamo immediatamente alla volta della riserva di Punta Tombo. Nonostante la stanchezza accumulata in tante ore di volo non tralasciamo la visita alla colonia di pinguini più numerosa della terra! I tempi sono strettissimi: sono le quattro e mezza del pomeriggio e la riserva chiude al tramonto, intorno alle otto. Inoltre, dobbiamo percorrere 120 km di strada sterrata per raggiungerla. Come se tutto questo non bastasse, pochi chilometri dopo aver imboccato la ruta provincial 1, buchiamo. Restiamo per qualche minuto incerti sul da farsi. Ritorniamo o proseguiamo? Se continuiamo contravveniamo ad una regola cui non si deve mai disobbedire viaggiando sulle strade della Patagonia ossia mai azzardarsi senza una ruota di scorta. Questo per almeno tre ragioni: l'alta percentuale di forature procurate dalle brutte strade, le lunghe distanze che separano un centro abitato dall'altro e la scarsa densità demografica.
Beh, se non avevamo ancora ritrovato gli ambienti patagonici senza dubbio stavamo già vivendo lo spirito di un viaggio in queste terre: gli imprevisti e l'avventura. Dopo l'indecisione iniziale, sostituiamo la ruota e violiamo la regola: proseguiamo diritti verso Punta Tombo!
Sono le diciannove in punto quando entriamo nella riserva. Inizialmente rimaniamo delusi perché mentalmente associavamo l'immagine dei pinguini all'acqua, al freddo e al ghiaccio: ebbene, nulla di tutto questo è Punta Tombo. Sì, c'è naturalmente il mare, ma vediamo un solo pinguino in acqua, diversamente il paesaggio è arido, fatto di rocce e cespugli spinosi, ma proprio in mezzo a quest'inaspettato ambiente si trovano migliaia di pinguini di Magellano. L'immagine che li accompagna, almeno questa, di uccelli buffi e curiosi, è fedele.
Essendo la stagione degli amori i maschi stanno davanti alle tane da loro stessi scavate sotto i cespugli, nella terra, mettendo in bella mostra il loro petto bianco. All'interno ci sono le femmine che covano le uova deposte qualche settimana prima. L'area della riserva è grande e i pinguini sono tantissimi e sparsi ovunque. Indimenticabile sarà il ricordo dei loro echeggi, qualcosa a metà strada tra il raglio dell'asino e il grugnito del maiale.
Prima di ritornare a Trelew chiediamo all'addetto della biglietteria se è possibile riparare la ruota, ci risponde che il gommista lo troveremo in città. Non ci resta che incrociare le dita. Nel frattempo si è fatto buio. Dopo due ore e mezza di strada sterrata ed isolata, avvolti dal buio della notte, senza nessuna luce all'orizzonte se non quella dei fari della nostra auto, arriviamo, finalmente, a Trelew. Ci sistemiamo nel primo albergo che troviamo (Hotel Argentino, 37$ a persona) e andiamo a mangiare ( Casa di Juan, circa 17$ a persona). Sono le undici di sera di questo primo interminabile giorno.
Secondo giorno:
Trelew - Puerto Piramide - Penisola di Valdes - Puerto Piramide (circa 368 km)
Con una nuova ruota di scorta partiamo più sereni per la Penisola di Valdés sperando di essere un po' più fortunati e lo saremo perché non bucheremo più per tutto il viaggio.
A Puerto Madryn perdiamo tempo poiché non riusciamo a trovare la deviazione per la ruta 42. Su questa strada, che si snoda lungo la costa, dopo 15 km s'affaccia la spiaggia del Doraddillo da dove si possono vedere le balene a soli 30 m dalla riva. Rimaniamo delusi: pur tenendo gli occhi ben sgranati verso il mare non avvistiamo alcun cetaceo. Stufi di aspettare proseguiamo verso la nostra meta, fiduciosi di poter ammirare le balene a Puerto Piramide. Quando riprendiamo l'asfalto siamo al raccordo con la ruta provincial 2, ancora 40 km ed entreremo nella riserva marina di Valdés. Sull'istmo Ameghino la strada corre in mezzo all'oceano; alla fine dell'asfalto ecco profilarsi Puerto Piramide. Da qui hanno inizio le immense emozioni che proveremo al contatto con la vita oceanica di questi straordinari posti. Il rifugio offerto da spiagge ed insenature attira una gran quantità di mammiferi marini senza pari nel mondo, il tutto concentrato in questa zona limitata denominata, appunto, Penisola di Valdés, non a caso riconosciuta dall'UNESCO patrimonio dell'umanità.
Puerto Piramide è incantevole, protetta com'è dalla bella baia e nascosta da alte falesie. Arrivati sulla spiaggia c'informiamo sulle escursioni di whale watching, le gite in barca per osservare le balene. Non badiamo al prezzo (20 USD a persona), tra l'altro uguale per tutte le agenzie, ma all'orario di partenza. Così dieci minuti dopo salpiamo verso il mare aperto. Per via del fondale basso un trattore trascina l'imbarcazione fin dove l'acqua diventa sufficientemente profonda affinché galleggi. Giunti al largo, lucide schiene nere emergono rompendo la superficie del mare: si tratta di tre balene che sembrano giocare proprio intorno alla nostra barca. Le balene compiono le loro evoluzioni a pochissima distanza da noi. E' un incontro incredibile. Le stesse scene si ripetono quando si materializzano davanti all'imbarcazione altre due balene che sembrano ancora più estroverse delle prime. Queste ultime mostrano per intero la loro suadente coda e passano ripetutamente sotto lo scafo, a volte emergono dall'acqua con la testa rivelando la caratteristica che contraddistingue le balene franche australi ossia le callosità biancastre che hanno sul capo. Ad un certo punto, in lontananza, vediamo il classico sbuffo della balena e subito il timoniere si dirige in quella direzione. E' una balena con il suo piccolo. Inseguendoli con la barca, ad un certo punto, assistiamo ad una scena commovente: la mamma emerge quasi completamente in superficie con sopra il cucciolo. Dall'imbarcazione si leva un' unanime esclamazione di meraviglia! L'unico aspetto negativo è costituito dal mare mosso, accentuato dalle onde anomale procurate dalle balene che fanno dondolare la piccola imbarcazione. Lo stesso trattore che ci aveva trascinato in mare ci aspetta in mezzo all'acqua per riportarci a riva. Per ovviare al senso di malessere e nausea procuratoci dall'escursione consumiamo un frugale pranzo in un bar. Un' empanada e una coca cola saranno sufficienti a ristabilirci.
Partiamo per il tour della penisola. Sulla sterrata per il faro di Punta Delgada appaiono in successione la Salina Grande e la Salina Chica. In entrambi questi bacini salati, che colpiscono per la curiosa colorazione rossa che contrasta con il verde circostante vediamo grossi uccelli volare radenti all'acqua. Seguendo alcuni suggerimenti datici sul posto, non scendiamo fino alla spiaggia di Punta Delgada ma puntiamo su Punta Cantor e Caleta Valdés.
Prima di arrivare a Punta Cantor, lungo la strada che corre alta sulle falesie e solo di tanto in tanto fa intravedere il mare, ci assale il desiderio di fermarci e sporgerci dall'alto per ammirare il panorama. Quello che vediamo è sensazionale: centinaia di leoni ed elefanti marini stesi al sole sulla spiaggia. Lo spettacolo è struggente.
A Punta Cantor riusciamo a scendere, lungo un sentiero, quasi fino alla spiaggia per osservare da vicino quanto veduto precedentemente dall'alto. La mole degli elefanti marini maschi è paurosa. Sono dei bestioni di tutto rispetto! Sono tre, quattro volte più grandi delle femmine e dei leoni marini. Qua e là se ne vedono alcuni trascinarsi faticosamente, altri emettere dei muggiti selvaggi.
A Caleta Valdés troviamo ancora spiagge affollate da colonie di mammiferi marini. Qui i nostri sguardi sono attirati da due orche marine che nuotano nell'acqua, non lontano da riva. Le accompagniamo con i nostri sguardi finchè non si dileguano nello sconfinato oceano.
Il periplo della penisola prevederebbe ora Punta Norte, ma, ormai, siamo ampiamente appagati dalle tante specie viste; oltretutto, tra poco il sole tramonterà e perciò decidiamo di ritornare. Prendiamo l'unica strada che divide in due la penisola passando per l'interno. Tagliamo quindi il circuito ad anello per rientrare a Puerto Piramide, dove trascorreremo la notte ( Estancial del Sol, 23 $ a pax;. cena The Paradise 19 $).
Terzo giorno:
Puerto Piramide - Trelew aeroporto (187 km) - Ushuaia (volo)
Il giorno dopo ci aspetta una levataccia. Nel primo pomeriggio con un volo aereo raggiungeremo la mitica Ushuaia, ma prima vogliamo visitare il museo paleontologico E. Feruglio di Trelew che conserva una splendida raccolta di reperti fossili, compresi interi scheletri di dinosauri scoperti nella regione. Lasciamo perciò Puerto Piramide e la Peninsula de Valdés non senza malinconia, dall'alto delle falesie vediamo per l'ultima volta le balene compiere le loro acrobatiche evoluzioni. Ammirare questi animali, nel loro habitat, è stata un'esperienza meravigliosa, unica, credo irripetibile. Lasciamo l'auto e prendiamo l'aereo.
Ecco, finalmente, Ushuaia: la Ciudad mas austral del mundo (54° e 46' di latitudine sud). Si corre il rischio di far della facile retorica, ma essere in procinto di atterrare su quel puntino in fondo al continente Sudamericano trasmette sensazioni inspiegabili. Il fascino e il mistero di un viaggio attraverso la Terra del Fuoco si avvertono fin da quando, guardando la cartina geografica, ti accorgi che si tratta della terra più vicina al Polo Sud, alla fine del mondo.
Ushuaia è sotto di noi. La vediamo dal finestrino dell'aereo e prima ancora di atterrare ne tastiamo il mito, a cominciare dall'inospitalità del suo clima. L'aereo deve atterrare in mezzo ad una tormenta di nevischio e furiose raffiche di vento. A terra, restiamo colpiti dall'odore del fumo di legna: il sistema di riscaldamento aeroportuale è, infatti, del tipo a stufa. L'impatto con la città è traumatico. Per tutta la giornata la pioggia scende a catinelle. A parte il centro, appositamente abbellito per non deludere le frotte di turisti che qui fanno obbligatoriamente tappa nel loro viaggio in capo al mondo, la città non è altro che un triste e, quando piove, fangoso agglomerato urbano.
La visita al Museo Territorial Fin del Mundo e al Presidio Militar ci risollevano il morale: nel primo ci applicano sul passaporto il timbro della "fin del mundo", ambito da tutti i viaggiatori; nel secondo apprezziamo la fedeltà con cui è stato conservato quello che era il carcere più temuto all'epoca delle esplorazioni; nel penitenziario erano imprigionati i delinquenti più pericolosi. La sera trascorre languida al Moustacchio restaurant tra succulenti piatti d'asado (carne) e di centolla (pesce). Pernottiamo presso Hostal del Monte (33 $ a pax).
Quarto giorno:
Ushuaia - Rio Grande (272 km circa)
Il giorno seguente, il vento, sempre forte, c'impedisce di compiere l'escursione sul canale Beagle, ma almeno spazza via le cupe e gravide nubi. Il canale prende nome dal brigantino da guerra della marina inglese che, al comando di Fitz Roy e con Darwin a bordo, salpò da Devonport nel 1831 per raggiungere queste terre estreme. Dall'hostal del Monte, dove abbiamo pernottato, possiamo godere di una bella veduta del canale Beagle. Passeggiamo lungo il paseo del centenario. Dall'alto rimango abbagliato dai riflessi del sole, effetto specchio causato dalle centinaia di tetti di lamiera di Ushuaia che riflettono i raggi di sole. Fa' da sfondo l'inconfondibile ed incombente sagoma del Monte Oliva, alto 1.328 m. La montagna fu scalata per la prima volta nel 1913 da Alberto Maria De Agostini.
Compiamo una sorta di foto-safari immortalando, non animali ma eloquenti cartelli. In avenida San Martin si trova un palo costituito da tante piccole frecce su cui sono riportati i nomi delle principali capitali del mondo, con la relativa distanza: Roma 13.651 km, Polo Sur 3.926 km. Percepiamo, più che mai, d'essere, come dice il cartello all'ingresso della città, nella Ciudad mas austral del mundo. Il nostro singolare safari si conclude al porto con la foto al cartello: Ushuaia fin del mundo. Nei pressi un cartello stradale indica: La Quiaca 5.171. Scopriamo così che l'Argentina è lunga più di 5.000 km.
Preso possesso dell'auto, una comune VW Golf, puntiamo in direzione sud verso Baia Lapataia ossia il punto in cui termina la Ruta Nacional n°3, strada che attraversa idealmente tutto il continente americano. Qui fotografiamo l'ennesimo cartello: Bahia Lapataia. Aquì finaliza la ruta nacional n°3. Buenos Aires 3.063 km. Alaska 17.848 km. Baia Lapataia, il punto dove finisce il continente americano e meta finale di molti viaggi, è il punto di partenza della nostra spedizione attraverso la Tierra del Fuego. Percorreremo la Ruta Nacional 3 fino a San Sebastian, poi risaliremo l'Isla Grande, la maggiore dell'arcipelago sulla Ruta 257 fino ad arrivare allo Stretto di Magellano. La piccola impresa è già stata da noi battezzata "Trans Tierra del Fuego" 500 km di strada, per la maggior parte sterrata, percorsi con una normale VW Golf.
Prima di partire, scruto l'orizzonte davanti a me e contemplo il mare. Non sono mai stato così vicino al continente antartico.... Il vento si è fatto forte, odo sempre più i suoi sibili, interrompo l'incanto antartico e pregusto il sogno attuale: la Tierra del Fuego. Penso al Passo Garibaldi e alla Ruta 257, i due principali ostacoli da superare. Confido nel bel tempo... ma è ora di partire.
Il Parque Nacional Tierra del Fuego è cosparso di fitte foreste di faggi. Il bosco, a prima vista, sembra un ambiente trascurato, indifeso, forse per via dei molti alberi morti e dei tanti tronchi spezzati, invece è pieno di misteri. Pare di addentrarsi nei meandri scoloriti e logori del tempo, ma in realtà è un bosco meravigliosamente ricco di sfumature, di verdi e di marrone. Il cielo quasi non si scorge e i raggi del sole creano strani giochi di luce. Le barbe fluenti degli alberi suggeriscono segreti. Qua e là, si vedono ovunque cauquén, le grosse oche australi: bianchi i maschi, marroni le femmine.
Una breve deviazione ci porta alla stazione ferroviaria più australe del mondo, in origine costruita per il taglio e il trasporto del legname. Oggi il treno viaggia soprattutto per fini turistici e, alla modica velocità di 20 km l'ora, porta i visitatori all'interno del parco.
Continuo ad avere per la testa il passo Garibaldi, che non è Giuseppe ma Louis, il meticcio artefice della sua costruzione viaria. Ripassando da Ushuaia scorgiamo il Monte Oliva, la bussola meteorologica della città, coperto dalle nuvole. Brutto segno! Infatti, inizia a piovere. Avverto un presagio, la sensazione che sul passo possa nevicare. Presto la strada asfaltata termina, ma la sterrata è ottima. Man mano che saliamo di quota la pioggia si trasforma in neve. Proviamo sulla nostra pelle l'imprevedibilità del tempo di queste terre australi quando, superato l'ennesimo tornante, come per incanto usciamo dalle nubi e dalla precipitazione nevosa che ci avvolgevano. Davanti a noi, il sole brilla radioso in quella parte di cielo sgombera da nuvole: giungiamo così in cima al temuto passo che quota 430 m senza neppure accorgercene. Dal passo si apre una meravigliosa vista sul lago Fagnano, di un blu intenso, quasi irreale. Osservo le nuvole correre veloci in cielo. I cambiamenti di colore, azzurri e grigi tra impalpabili cumuli di nebbia e squarci d'aria tersa sono altrettanto rapidi. Il cielo cambia continuamente aspetto.
Nella zona meridionale dell'Isla Grande riconosco fedelmente la Tierra del Fuego raccontata da Darwin: la terra del Fuoco si può descrivere come un paese montuoso sommerso in parte dal mare. Profondi seni e baie occupano il posto dove dovrebbero esserci le valli. Strada facendo le caratteristiche cambiano. Via via che risaliamo verso nord le montagne e gli alberi lasciano il posto alla prateria: siamo nella zona chiamata vega costituita da umidi pascoli attraversati da piccoli torrenti. Gli incontri con persone e auto, lungo la strada per Rio Grande, sono talmente eccezionali che la città, dopo così tanta solitudine, ci pare una metropoli, neanche a dirlo spazzata da un forte vento. Rio Grande è anonima e si può ben definire una città di passaggio, tuttavia colpiscono i colori vivi delle case, delle giostre e persino dei bidoni delle immondizie, un modo come un altro per rendere un po' più calda e vivibile la città durante il grigiore dei tanti giorni di cattivo tempo.
Pernottiamo all'Hotel Ibarra (42 $ a pax; cena da Aruacas, 28 $).
Quinto giorno:
Rio Grande - Puerto Natales (Cile) (502 km circa)
Lungo il tragitto per la frontiera cilena visitiamo la missione salesiana della Candelaria. Il cielo è limpido, la giornata tersa, il vento soffia più forte e freddo che mai tanto da impedirci, quasi, di chiudere le porte dell'auto. All'interno dell'abitacolo la polvere è dappertutto!
La missione fu fondata per ricevere gli indigeni Ona. A questo punto diventa inevitabile fare almeno un accenno storico. Intorno alla metà del XIX sec. si credeva che nella lontana Tierra del Fuego abitasse il popolo più diverso, sconosciuto, pericoloso e selvaggio della terra.
La missione dei padri francescani, evangelici o salesiani che fossero era semplice: arrivare in questo luogo sperduto in cui gli indigeni non avevano mai avuto contatto con nessun popolo per civilizzarli e attraverso la parola di Dio salvare le loro anime! L'estinzione, o meglio cancellazione, degli abitanti autoctoni ha ormai snaturato i luoghi che ci si schiudono davanti. Nel breve tratto percorso fino ad ora, ci si rivela l'enorme paradosso: credevo di essere in un mondo ancora uguale a quello dei primi esploratori giunti quaggiù, ma non è così. I fuegini non esistono più!
Attraversato il posto di frontiera tra Argentina e Cile a San Sebastian, imbocchiamo la ruta 257. La strada è particolarmente brutta, tanto da non potersi definire neanche una sterrata ma una pista di fango, resa tale dalla pioggia battente di qualche ora prima. L'andatura in alcuni tratti supera a stento i 15 km l'ora e rimpiangiamo di non aver affittato un fuoristrada. Lungo il tragitto incontriamo spesso mezzi impegnati a sistemare la rete stradale strenuamente all'opera fin dalla fine dell'inverno.
Una ventina di km prima del comune di Primera Angostura, la via ritorna improvvisamente asfaltata, poi s'arresta, letteralmente, contro la costa. Siamo nello Stretto di Magellano! Un traghetto che fa la spola tra le due rive ci porterà a Punta Delgada, in Patagonia.
Il fascino della Terra del Fuoco è quello di essere una zona selvaggia, impervia, completamente naturale, senza quasi traccia dell'intervento umano. Nonostante tutto questo non si può definire bella! Come scrisse, ancora una volta, Charles Darwin, "la Terra del Fuoco è solo triste solitudine. Regno quasi assoluto della morte più che della vita." Vero, ma aggiungiamo noi è anche uno degli ultimi luoghi sulla terra capaci di regalare ancora una vera avventura di viaggio.
Da Punta Delgada ci aspetta ora un lungo trasferimento fino a Puerto Natales, ma per lo meno i km da percorrere sono interamente asfaltati. Facciamo una prima sosta all'Estancia San Gregorio, proprio sulla strada. Quella che un tempo era un vastissimo e glorioso ranch è ora in gran parte abbandonato ed ha l'aspetto di una città fantasma, atmosfera cui contribuiscono i relitti delle navi incagliate sulla spiaggia: si tratta dell'Amedeo, famosa per essere la nave con cui giunsero i primi padri salesiani in questi luoghi, e dell'Ambassador, finita anch'essa ingloriosamente sulla riva settentrionale dello storico stretto di Magellano. Mettiamo ai voti l'escursione alla pinguineras del Seno (insenatura) d'Otway, che richiede una deviazione di 90 km tra andata e ritorno. La colonia di pinguini presente è infinitamente meno numerosa di quella di Punta Tombo. Arriviamo a Puerto Natales alle ultime luci del giorno, in tempo per assistere ad uno spettacolare tramonto sul Seno Ultima Esperanza con la mente già proiettata a domani, al Parque Nacional Torres del Paine, una delle principali attrazioni di tutta la Patagonia.
Pernottiamo presso l'Hotel Drake (35 pesos cileni a pax; cena da Andreas 15 pesos cileni).
Sesto giorno:
Puerto Natales - Parque Nacional Torre del Paine (circa 189 km)
Al mattino, basta un'occhiata ai cigni dal collo nero, caratteristici della regione, e ci dirigiamo alla Guarderia Laguna Azul, l'entrata più a nord del parco. Il cielo è grigio e cupo, piove e c'è un po' di nebbia. Non ci resta che confidare in uno dei tanti e repentini cambiamenti meteorologici che caratterizzano la Patagonia. La strada ritorna ad essere sterrata appena fuori Puerto Natales. Una breve sosta alla Cueva del Milodon e proseguiamo diritti per Cerro Castillo. Percorriamo un tratto di strada recintato su ambo i lati da del filo spinato su cui sono affissi dei minacciosi cartelli: ¡Peligro Campo Minado! che ricordano vecchie ostilità tra Cile e Argentina. Le braccia s'irrigidiscono e diminuisco la velocità al pensiero di poter finire per qualsiasi motivo fuori strada. Il tempo intanto migliora e ci ritroviamo nel parco senza neanche accorgercene.
Una cinquantina di guanaco che, spaventati dal nostro arrivo scappano tagliandoci letteralmente la strada, ci danno il benvenuto al Paine. Alla Laguna Azul aspettiamo più di un'ora con la speranza che il vento spazzi via gli ultimi corpi nuvolosi che sostano proprio sulle Torri del Paine. La giornata va decisamente rasserenandosi; il vento soffia sempre più forte e conseguentemente libera il cielo dalle nuvole, quindi attendiamo di potere ritrarre le tre granitiche e rinomate torri che si specchiano nelle terse acque della laguna. Invano! Unico risultato è quello di essere improvvisamente investiti da una vera e propria secchiata d'acqua, alzata dall'impetuoso vento. Saremo premiati al belvedere della grande cascata del Rio Paine, e poco importa se qui, le tre cime, non si specchiano in alcun lago. La vista è, comunque, superba.
Il paesaggio è fiabesco. Nella cornice dell'imponente massiccio del Paine la strada sembra aprirsi sospesa sopra un regno incantato, con spettacolari e repentini saliscendi tra laghi di svariato colore, ora argento e verde, ora azzurro e blu. In certi tratti la strada fà da ponte naturale da una sponda all'altra e sembra quasi di tuffarsi con l'auto nell'acqua per poi riemergere sulla riva opposta. Il verde è di mille tonalità, tutte brillanti. Sembra di essere nel giardino dell'Eden. Gli stop sono continui: non si riesce proprio a fare a meno di fermarsi per immortalare i vari panorami. Non ci si stanca mai di osservare paesaggi che sono autentiche opere del creato.
Alla fine del pomeriggio raggiungiamo la posada Rio Serrano dove pernotteremo (25USD a pax) e la cui hall pare una sala da tè d'altri tempi, un ambiente pseudo-nobiliare che contrasta con le semplici camere scaldate con delle stufe a legna. Dopo cena (12USD ) andiamo a vedere il tramonto sul Lago Pehoe. La strada, ora con l'approssimarsi delle ombre della notte, è attraversata da scattanti e agili capibara, le lepri della Patagonia. Davanti alla catena montuosa del Paine, delicatamente tinteggiata di rosa che risalta scolpita nel cielo come una formidabile fortezza merlata di torri, di pinnacoli, di corna mostruose, resto senza parole. Il freddo si fà pungente e ci costringe a rientrare.
Prima di coricarci, però, facciamo provvista di legna, per alimentare la stufa durante la notte, e c'intratteniamo a parlare con il gestore. Comodamente seduti intorno al camino che scalda e anche profuma piacevolmente la stanza, senza televisione né radio, lontani dal mondo, in mezzo alla natura, soli con noi stessi ed i nostri discorsi, mi sento sereno come poche altre volte nella vita.
Settimo giorno:
Posada Rio Serrano - El Calafate (Argentina) (348 km circa)
Proprio questi piccoli iceberg impediscono all'imbarcazione che ci condurrà fino al fronte del ghiacciaio di avvicinarsi, perciò è con un piccolo gommone che avviene il trasferimento dalla riva allo scafo. Risalendo il lago non incontriamo alcun iceberg, questi sono tutti concentrati nelle immediate vicinanze del ghiacciaio o della riva. Quando si spengono i motori, usciamo in coperta e ci troviamo davanti all'intero fronte del ghiacciaio e al nunatak, il piccolo isolotto roccioso che lo divide e per cui il ghiacciaio Grey è famoso. L'altezza del fronte di ghiaccio non è elevata, ma proprio per questo riusciamo ad avvicinarci fin quasi a sfiorarlo.
Così vicino, non si può non essere attraversati da continui fiotti di adrenalina anche se l'osservazione dei pinnacoli, dei crepacci e degli innumerevoli colori è più che sufficiente a distrarre. Passa un'ora quando la nave prende la via del ritorno, ma sembra siano passati appena cinque minuti tanto è stato l'incanto. A tutti viene offerto pisco sur con ghiaccio, ghiaccio naturalmente raccolto nelle gelide acque del lago. Lungo la strada che costeggia il Lago Sarmiento ci fermiamo a dare un ultimo omaggio al Paine, una sorta d'addio. E' triste separarsi da quel incredibile affastellamento di vette vertiginose che si perdono ormai sullo sfondo come tanti coltelli conficcati tra le nuvole. Sussurro tra me e me prima di voltarmi. Il vento d'improvviso si placa. Interpreto la cosa come un segnale, una risposta al mio riverente saluto. Trovo l'attimo per voltare le spalle alle montagne e risalire in auto. Nessuno parla: penso di aver conosciuto il posto in cui trascorrei volentieri il resto della vita.
Lasciamo le Torri del Paine e attraversiamo la frontiera tra Cile ed Argentina a Cerro Castillo dove facciamo carburante presso l'unico benzinaio del paese. Il distributore è curioso perché è sistemato all'interno di un gabbiotto di legno che funge anche da ufficio. Percorsi una decina di km siamo a Cancha Carrera il posto di confine argentino. Qui imbocchiamo la mitica ruta 40 la quale però è interrotta a Tapi Aike. Ci tocca quindi fare una deviazione fino ad Esperanza, il che comporta un notevole allungamento di strada. Ad Esperanza la strada diventa improvvisamente asfaltata ma ci accorgiamo ben presto che, seppur asfaltata, la strada è piena di buche profonde e pericolose; non solo, di tanto in tanto torna ad essere, anche se per poche centinaia di metri, sterrata. L'andatura cala nuovamente: è prudente mantenere una velocità moderata. Quando arriviamo ad El Calafate le lunghe ombre del pomeriggio inoltrato si stendono davanti a noi.
Pernottiamo all' Hospedaje Jorgito (15$ pax; cena da Rick's Café, 15$)
Ottavo giorno:
El Calafate
Al Parque Nacional los Glaciares tutti noi ci aspettiamo di vedere una sorta di Antartide in miniatura, un paesaggio d'imponenti ghiacciai e grandi iceberg. Sebbene le dimensioni degli uni e degli altri siano assai più ridotte rispetto a quelli dell'Antartide, la somiglianza sarà palpabile e l'appellativo di "piccolo Antartide" è assai indovinato, specie per coloro che decideranno di compiere la traversata dello Hielo Patagonico Sur. Noi ci accontenteremo di ammirare il più turistico Parco dei Ghiacciai in grado, in ogni caso, di accontentare anche i viaggiatori più esigenti.
Per contemplare tutto questoil nostro programma prevede un'escursione a piedi sul ghiacciaio del Perito Moreno.
Ci alziamo col cielo coperto. Scende una pioggia fine, a tratti insistente e fastidiosa. Non riusciamo a deciderci su cosa fare. "Ma perché dobbiamo sempre raggiungere o fare qualche cosa? Per una volta, non possiamo goderci e vivere la bellezza del Perito Moreno dalle passerelle, costruite per ammirarlo, senza doverlo necessariamente attraversare?" Decidiamo, quindi, di effettuare l'escursione al Moreno nella giornata di domani sfruttando completamente le ore di luce dato che il sole tramonta alle ore 21.40, e confidando in un tempo migliore.
Ci concediamo, così, un giorno di relax, avanti e indietro lungo avenida del Libertador General Josè de San Martin, principale arteria di El Calafate. Entriamo ed usciamo dai negozi che costeggiano la via. Batik, magliette, pile, ma soprattutto liquore e marmellata di calafate, il frutto simile al mirtillo da cui prende nome la città. Nel nostro gironzolare su e giù ci fanno costantemente compagnia i deliziosi aromi di asado. Il sapore della carne sulla griglia ci fa' venire l'acquolina e, nonostante siano solo le 18.00 del pomeriggio, già pregustiamo il sapore della cena ( El Vejo, 18$).
Nono giorno:
El Calafate - Puerto Bandiera - Perito Moreno - El Calafate (205 km circa)
La maggior parte degli escursionisti si accomoda all'interno del catamarano; noi restiamo in coperta indifferenti al forte e gelido vento che ci fa' capire che, se non siamo in Antartide, fuori dai confini del mondo, siamo pur sempre in Patagonia, ai confini del mondo. A prua, imbacuccato nel mio giubbotto, con la cuffia ben tirata sulle orecchie scruto l'orizzonte dell'immenso lago. Voglio essere il primo ad avvistare un iceberg. Quando sono ormai in procinto di lasciar perdere intravedo un puntino bianco galleggiare in lontananza, alla fine del brazo norte del lago. Cinque minuti dopo quel punto diventa un ben definito iceberg.
Il capitano annuncia al microfono l'avvistamento di un témpanos, così come chiamano qui gli iceberg, e il ponte è invaso dagli altri turisti. Mentre da vicino fotografo il gigantesco blocco di ghiaccio alto una decina di metri e largo altrettanti, mi chiedo se arriverà mai a depositarsi sulla costa opposta come a volte succede quando gli iceberg sono tanto grandi. Man mano che ci avviciniamo ai fronti dei ghiacciai vedremo apparire molti témpanos per la maggior parte piccoli e soltanto pochi grandi. Nel corso dell'escursione visiteremo il fronte di tre ghiacciai, nell'ordine: lo Spegazzini, l'Onelli e l'Upsala: Il primo e l'ultimo, in particolare, sono delle vere e proprie fiumane di ghiaccio che scendono nel lago dalle vallate della cordigliera. Il ghiacciaio Seco, il primo che avvistiamo, si distingue perché a dispetto degli altri non raggiunge l'acqua.
Dopo un'ora di navigazione appare il ghiacciaio Spegazzini. Da lontano assomiglia ad un enorme serpente bianco che scende sinuoso dalla montagna per immergersi nelle acque del lago. Durante la perlustrazione assistiamo allo spettacolare distacco di un pinnacolo dal ghiaccio. Il rumore è catastrofico, le conseguenze fortunatamente no, ma lo stesso l'imbarcazione oscillerà per qualche minuto.
Raggiungiamo il ghiacciaio Onelli dopo una breve escursione di una ventina di minuti in mezzo ad un bosco di piante di lenga. Qui, più del fronte del ghiacciaio è la laguna ad attirare l'attenzione. La piccola laguna si sta sgelando. Davanti alla baia Onelli, lontano da città e villaggi, isolato, seduto su una roccia, trascorro una buona ora consapevole dell'unicità della situazione. In questo luogo, dove la vita sembra scorrere uguale come in tempi remoti, mi godo questa selvaggia bellezza. C'è un grande silenzio. Sono attirato dal paesaggio che solo ora riesco ad assaporare pienamente nella sua grandiosità. Spazio e silenzio sono particolari, quasi irreali.
Infine giungiamo al ghiacciaio Upsala, un campo di ghiaccio galleggiante formato da tanti iceberg, piccoli e grandi. Quel che stiamo vedendo è di una grandiosità, d'una bellezza e magnificenza tale che la mia penna non è capace di descrivere. Mi sembra davvero di essere in chissà quale mare polare. Il catamarano sbatte di continuamente contro piccoli ostacoli di ghiacciai, con rumori più o meno assordanti che a volte incutono timore. Alcuni témpanos sembrano veleggiare sospinti dal vento e dalle correnti, altri sono completamente immobili. Tutti indistintamente hanno forme bizzarre e colori freddi. La massiccia presenza di blocchi di ghiaccio c'impedisce di raggiungere il fronte del ghiacciaio nonostante i vani tentativi dell'imbarcazione di avanzare. L'Upsala è il maggiore dei ghiacciai periferici dello Hielo Patagonico: misura 60 km di lunghezza e 12 km di larghezza, mentre il fronte è di 4 km.
La bella giornata incomincia a rovinarsi, abbiamo così modo di apprezzare delle nuvole molto frequenti in Patagonia, le cosiddette Contessa dei venti ossia una sovrapposizione di nubi lenticolari.
Rientrati a Puerto Bandera saliamo subito sull'auto per raggiungere, dopo 70 km di strada sterrata, il più famoso e conosciuto dei ghiacciai della Patagonia ossia il Perito Moreno che s'immerge nel brazo Rico del lago Argentino. La notorietà del Moreno si deve al fatto che è l'unico ghiacciaio in fase di avanzamento sulla terra e per l'altezza del suo fronte che raggiunge gli 80 m al di sopra dello specchio d'acqua del lago.
Vi giungiamo all'imbrunire. Vista l'ora tarda e l'assenza di turisti, il ghiacciaio conserva intatto l'intrinseco incanto della natura selvaggia. Il ghiacciaio brontola in continuazione, sembra vivo. L'effetto è dovuto ai continui crolli, interni ed esterni, dei blocchi di ghiaccio i quali, cadendo, provocano dei tonfi spettacolari. I rumori si sposano perfettamente ai sogni di speranze e di avventure che trasmettono le guglie del ghiacciaio solo all'apparenza aspre e desolate, ma armoniose se confrontate all'ambiente e al paesaggio circostante che trasudano di magia. In questo spazio primordiale mi sento per la prima volta uno spirito davvero libero.
Risalito in macchina, sulla strada del ritorno, mi vedo riflesso sul finestrino. Il mio viso è trascurato, la barba folta, gli occhi stanchi, per la lunga giornata, ma luminosi per le bellezze naturali contemplate. Fisso l'alambrado, il recinto di fil di ferro presente dappertutto sui terreni patagonici e, per una volta, non vedo ciuffi gialli né pecore addossate su miseri cespugli. Gli occhi sono ancora pieni del bianco accecante della lunga giornata trascorsa in mezzo ai ghiacci del Parque Nacional los Glaciares.
Decimo giorno:
El Calafate - El Chalten (Cerro Torre e Fitz Roy) (220 km circa)
Dalla mitica ruta 40, imboccata 35 km dopo El Calafate, vedo per la prima volta il leggendario Cerro Torre. A dire il vero, dalla catena montuosa che si profila all'orizzonte, distinguo meglio il Fitz Roy. Le due cime, simbolo della Patagonia, sono visibili già da molto lontano. Percorrendo la ruta 40, la Cordigliera si sviluppa parallela al nostro senso di marcia e i due monti si trovano alla nostra sinistra. La giornata è bella, ma la preoccupazione rimane. Il tempo è molto variabile, spesso brutto stando alla documentazione raccolta prima di partire.
Quando c'immettiamo sulla ruta 23, che costeggia il lago Viedma, cominciamo ad andare incontro ai monti e così la catena montuosa si trova proprio dinanzi a noi. Al centro spicca la grandiosa sagoma del Fitz Roy (3.405 m), a fianco, verso sud, la slanciata ed appena distinguibile punta del Cerro Torre (3.102 m). Dove la strada termina c'è El Chalten, il paesino base di partenza dei trekking tanto per il Torre quanto per il Fitz Roy. Arrivati in città sembra di essere finiti dentro al set di un film western. Il paese è desolato, le strade sono tutte sterrate, il vento alza turbini di polvere e fà rotolare secchi cespugli, e a completare il quadro vediamo due persone a cavallo, con tanto di cappello da cowboy in testa.
Sistemati i bagagli all'hotel Lago del Desierto (33 USD a persona), facciamo una breve sgambata fino alla cascata Chorillo del Salto tanto decantata, ma a dire il vero niente di particolare. Merita molto di più, al tramonto, uscire di qualche km da El Chalten, fermare l'auto ai bordi della strada, salire su una qualunque delle tante colline e assistere al calar del sole. Osserviamo l'oscurità fasciare lentamente e interamente il paese e le montagne circostanti finchè non rimane che un tenue chiarore lunare. Sopra di noi, ad ovest, brilla già la croce del sud la quale, man mano che diventa notte, si fà più grande e più splendente. Rientriamo in paese compiaciuti di aver potuto ammirare per tutto il corso della giornata, prima da lontano fin dalla ruta 40 e ora da El Chalten, le nostre due eroine, ma è a domani che pensiamo e porgiamo tutte le nostre speranze: l'unico giorno utile a nostra disposizione per salire alla Laguna Torre.
Pernottiamo all' Hotel Lago del Desierto (33 USD a pax).
Undicesimo giorno:
El Chalten - trekking alla Laguna Torre (mirador sul Cerro Torre)
Quante volte ho letto del Cervino, dell'Everest, del Kilimanjaro o del Cerro Torre, montagne che hanno scritto la storia dell'alpinismo. Un mio piccolo sogno era sempre stato quello di riuscire, un giorno, a vederle tutte e salirne almeno una. Non mi pare vero di trovarmi in questo luogo sperduto che, a partire dalla seconda metà degli anni '50, una volta caduto l'Everest, iniziò a catturare la curiosità dei più grandi alpinisti del mondo.
Al mito della salita intesa come altezza si sostituisce l'esaltazione delle difficoltà. Non si guarda più agli 8.000 m e ci si rivolge alle pareti verticali, e quale miglior palestra della Patagonia?
La Cordigliera Patagonica, Fitz Roy in testa, inizia a rubare all'Himalaya gli amanti dell'alpinismo, ma per il momento il Cerro Torre rimane dietro le quinte. Non era neppure preso in considerazione: scalarlo era reputato impossibile. Ecco quanto scriveva M. A. Azema in una sua relazione: " Il problema della scalata? Non può essere posto il problema della scalata al Cerro Torre. Anche il solo pensare ad un tentativo è cosa vana e ridicola . E' insomma, il Cerro Torre, una cima che lascia in pace l'immaginazione degli scalatori, anche dei più appassionati, una cima vergine e inaccessibile, che non ispirerà mai che amori platonici".
Alle difficoltà tecniche, la Patagonia aggiungeva quelle meteorologiche. Qui l'alpinismo si è sempre scontrato con il cattivo tempo prima ancora che con le difficoltà tecniche. Il brutto tempo obbligava a lunghe e snervanti attese. Le scalate avvenivano in condizioni difficili di forte vento, nevischio, pioggia e nebbia. Tutto questo rafforzava la fama d'inaccessibilità del Cerro Torre, e le nostre paure di imbatterci in una brutta giornata. Andiamo a coricarci, ma non riusciamo a dormire se non per due o tre ore. L'attesa per la salita è snervante e alle cinque siamo tutti svegli. Sotto le coperte ascoltiamo il vento soffiare leggero. Mi alzo, apro le tende e guardo il cielo, ancora scuro, ma stellato. Lasciamo El Chalten all'alba, euforici per via della bella giornata che ci attende. Il sentiero per la Laguna Torre parte subito in salita, guadagniamo quota ed usciamo così dalla conca di El Chalten per proseguire lungo un piccolo vallone che si sviluppa verso sinistra. Qui immortaliamo il Fitz Roy, velato dalla suadente luce rosa arancione dei primi raggi del nuovo giorno. Sarà anche l'ultima, perché d'ora in avanti lo perderemo di vista per il resto della giornata. La mulattiera serpeggia spesso in piano fino a quando ci inoltriamo in un bosco di lenga dove riprende a salire per giungere ad un colle dal quale possiamo ammirare la gigantesca guglia del Cerro Torre.
Una breve discesa porta nella valle del rio Fitz Roy. Il sentiero, ora pianeggiante, supera spianate di sabbia ed acquitrinosi prati verdi. Davanti a noi incombe sempre più prossimo, sempre più spaventoso, il Cerro Torre. Con il passare delle ore cala anche il vento cosicché il sole si fà sentire e riscalda come nelle nostre vallate alpine in piena estate. All'improvviso, ci troviamo di fronte a non più di dieci metri, una grossa femmina di condor la quale cerca di spaventarci allargando le sue enormi ali per difendere il proprio nido. Per tutto il viaggio avevo cercato invano di fotografare uno di questi grossi avvoltoi che più d'ogni altro animale rappresentano le Ande. Avevo visto tanti condor volare, alti in cielo ma sempre troppo distanti per immortalarli nonostante facessi uso del teleobiettivo. Ora mi ritrovavo, incredibile ma vero, a tu per tu con uno di questi rapaci.
Incontriamo, quindi, un gaucho di montagna (una sorta di sherpa) e un alpinista diretti, con due cavalli carichi di provviste, al campo Bridwell, loro sì in procinto di effettuare qualche scalata.
Costeggiamo il fiume e questo ci permette di dissetarci in continuazione fin quando incontriamo un nuovo bosco di lenga che aggiriamo e al termine del quale iniziamo a risalire un pendio sassoso che, in breve, conduce al crinale morenico in cui sprofonda il lago. Sono le dieci e trenta, dopo tre ore e 350 m di dislivello, siamo arrivati alla Laguna Torre.
Nel lago brillano qua e là piccoli iceberg staccatisi dal ghiacciaio omonimo che scende dalla base del Torre. Il monte culmina in una gran "torre" - da cui il nome - che s'innalza verticalmente per oltre 2000 m dal piano del ghiacciaio e termina con un cappello di ghiaccio alto più di 50 m che poggia, appunto, su questa colossale "torre". Il Cerro Torre è un pinnacolo di roccia su cui il vento ha costruito miracolose incrostazioni di ghiaccio e neve, al limite delle leggi dell'equilibrio, su cui la storia dell'alpinismo ha raccontato epiche imprese, al limite della credibilità.
Facciamo sosta in riva alla laguna per circa due ore. Passo il tempo ad osservare e fotografare il Torre e a pensare alla storia della montagna. Ai tentativi di scalata di Bonatti e Mauri, di Maestri ed Egger, al successo di questi ultimi il 31 gennaio del 1959, ma a caro prezzo perché durante il secondo giorno di discesa Egger venne travolto da una spaventosa scarica di ghiaccio e rocce. Il suo corpo verrà ritrovato solo nel 1974. L'impresa venne messa in dubbio perché priva di documentazione e riscontri. Per zittire gli scettici Maestri ripeterà la scalata nel 1970 insieme con Claus e Alimonta, ma ancora una volta incontrò severe disapprovazioni dal mondo alpinistico poiché, per piantare più velocemente i chiodi nella roccia, si era servito di un compressore, metodo considerato non convenzionale dai puristi dell'alpinismo.
Ho avuto la fortuna di conoscere Cesare Maestri in occasione di una manifestazione tenuta nella mia città, e non capisco perché il mondo alpinistico abbia messo in dubbio la sua prima scalata e tanto criticato l'uso del compressore. Cesare Maestri mi è sembrata una persona onesta e, soprattutto, un grandissimo alpinista. Il curriculum delle sue scalate è incredibile. Un alpinista affermato e di successo perché mai avrebbe dovuto mentire mettendo in gioco la sua reputazione?
E poi, conquistare quei 2000 m di parete di roccia sperduta all'altro capo del mondo, nobilitata dalla stranezza, dalla forma, dalla difficoltà e dalle avverse condizioni meteorologiche servendosi di un compressore, per facilitarne la scalata, è un'impresa comunque!
E' ora di tornare. Scendendo passiamo per il campo Bridwell, punto d'appoggio per le scalate al Torre. Al centro esiste ancora la capanna Bridwell. Ripercorriamo la stessa strada dell'andata. Di tanto in tanto mi giro per scrutare ancora il Cerro Torre. Poco alla volta, passo dopo passo, il contorno della montagna viene lentamente ammorbidito e livellato dall'aumentare della distanza. Sono felice: ho visto il Cerro Torre!
Dodicesimo giorno:
El Chalten - Rio Gallegos (465 km circa) - Trelew (volo aereo)
Giornata piena, giornata d'addio. Quando è ormai l'alba abbiamo già consumato colazione e ci apprestiamo a lavare la nostra auto, una semplice Volkswagen VW Golf 1.6 che polvere, fango, buche, pioggia, neve, vento, ghiaccio e pietre, per nostra fortuna non hanno scalfito ma soltanto sporcato e insudiciato. La nostra auto, la sola protagonista dell'impresa, non ha assolutamente sfigurato al cospetto di immacolati ed equipaggiati fuoristrada che abbiamo incontrato e ci hanno tante volte superato e impolverato. La sfida è vinta! Attraversare le terre australis della Patagonia e Terra del Fuoco, luoghi dove lo spirito si nutre della grandezza del paesaggio, la libertà si fa ghiaccio immenso e il vento scuote l'anima, con un normale automobile! Gli ultimi 465 km, una sciocchezza dopo 2.531 km, li percorriamo nel più assoluto silenzio.
Da Rio Gallegos, in aereo a Trelew e di lì, in Italia.
Foto in alto | pululante su Flickr
Foto nel testo | R I O M A N S O su Flickr