IN Breve

COLUMBU: IL CINEMA ESPLORI IL MONDO

  • Scritto da Effe_Pi

foto di Uliano LucasÈ sicuramente l’artista sardo che più ha fatto parlare di se negli ultimi tempi. Chi scrive lo considera uno dei migliori cineasti italiani degli ultimi decenni, nonostante le grandi difficoltà, che lui stesso racconta, incontrate nel produrre i film.

Giovanni Columbu finora ha realizzato solo due lungometraggi, Arcipelaghi del 2001 e Su Re, uscito in sala un mese e mezzo fa. È nato a Nuoro ma vive a Cagliari da decenni, l’aspetto sardo del suo lavoro è evidente, non fosse altro perché tutti i protagonisti parlano in limba. Ite Novas lo ha intervistato per parlare del suo lavoro e del suo rapporto con le tematiche che affronta:

Molti tra noi ti considerano un grande regista, con pochi rivali specie in Italia. Come mai finora hai realizzato solo due lungometraggi, a distanza di 12 anni l’uno dall’altro?

Forse non sono in sintonia con i criteri con cui il ministero italiano seleziona i film da finanziare. Su Re è stato bocciato per ben due volte dalla commissione esaminatrice che lo giudicò “localistico”. La verità non è che ho impiegato tanto tempo, è che non ho potuto lavorare. Il film l’ho girato in nove settimane.

Pensi che il senso di inquietudine e destabilizzazione che trasmettono i tuoi film abbia qualcosa di intimamente connesso con l’identità sarda?

Mi sembra che nei sardi ci siano sentimenti di inquietudine e incertezza che forse dipendono da una condizione esistenziale o da un retaggio sociale e storico. In genere questi sentimenti sono celati da una maschera imperturbabile. È un tratto che mi affascina, che trovo doloroso e al tempo stesso ammirevole. Ma parliamo di sentimenti che in definitiva sono più o meno presenti in tutti gli esseri umani.

Hai scelto sempre attori non professionisti, che si sono rivelati di altissimo livello. Come sei riuscito a fare un “casting” del genere nella realtà sarda?

È una cosa che mi riesce facile. Certo ho dei miei metodi o meglio so che ogni metodo deve ogni volta essere reinventato, perché in genere vale una volta sola. Quando gli interpreti diventano troppo consapevoli bisogna inventare qualcosa per destabilizzarli, per metterli nelle condizioni di tornare a una condizione di incertezza. A volte bisbiglio, a volte dico pochissimo e lascio che siano smarriti, a volte parlo con violenza o chiedo loro cose assurde come ad esempio di dire le battute senza usare parole. E insisto finché le parole non possono più essere trattenute e scaturiscono vere e prive di ogni impostazione deliberata. In definitiva potrei dire con un paradosso che il mio metodo è volto a mantenere viva l’impreparazione degli interpreti. Lavorare molto e se occorre fare e rifare, ma sempre qualcosa di diverso. Una delle mie chance forse è che gli interpreti non mi capiscono bene, che non sanno chiaramente cosa voglio e quindi devono trovare in se stessi i gesti e le battute che servono. E devo dire che in genere sono veri e bravi anche quando io domando loro qualcosa di sbagliato. Più volte ho pensato che una grande qualità degli interpreti con cui ho a che fare sia il loro non dare troppo peso a quello che dico. Il casting comunque è un’operazione molto faticosa. Io non mi sogno neppure di dare bandi per cercare gli interpreti. So che i migliori non verrebbero. Bisogna scovarli, andarli a trovare nelle loro case o meglio nei luoghi di lavoro, ed è inevitabile all’inizio parlare d’altro, bere vino, intrattenersi. In genere ne esco a pezzi. In certi ambienti invece il casting è quasi superfluo. In qualche caso ho pensato che per selezionare gli attori, anche se non ho mai fatto proprio così, bastasse fermarsi per strada, con gli occhi chiusi e semplicemente afferrare i primi che passano e metterli a recitare. Sono tutti bravissimi. Chiunque è un grande attore. Basta dargli la parte giusta. Una volta presi, sono come dei figli, salvo casi eccezionali te li tieni. E sono già le fondamenta del film. Sono già in gran parte il film. L’atto cruciale del regista non è “dirigere” gli attori, ma sceglierli. E come dicevo dargli la parte giusta. Insomma, dopo tanto tempo che lavoro in Sardegna, io stesso a questo punto avrei curiosità di capire quanto dipende da me e quanto da una diffusa e innata predisposizione dei sardi a essere se stessi anche di fronte a una macchina da presa. Comincio ad avere voglia di ambientazioni diverse, urbane e moderne. Ma se continuo a fare un film ogni dieci anni non avrò troppe possibilità.

Su Re è un film che trasmette una grandissima forza spirituale, qual è il tuo rapporto col trascendente e la religione in particolare?

Credo e confido in Dio, in quell’entità indefinibile che ravvisiamo nel fluire misterioso della vita, nell’amore, nella bellezza, nel rapporto che manteniamo con gli uomini che ci hanno preceduto e che continuiamo ad amare e di cui tutti siamo eredi. Non so se il Dio che è nel mio sentire sia trascendente o sia nel creato e in ognuno di noi. Forse è entrambe le cose. Però posso dire che è meraviglioso impugnare una macchina da presa credendo e confidando in Dio. Occorre conoscere bene la storia dell’arte e la grammatica del cinema e avvertire fortemente in noi stessi sentimenti che domandiamo agli attori di esprimere. E domandare, anzi ordinare quello che abbiamo immaginato e che vogliamo. Ma al tempo stesso lasciare spazio all’incertezza e un poco anche al caso, ovvero lasciare che l’entità misteriosa che è nella natura si manifesti, interagisca col nostro fare, lo renda più vero e complesso. Per questo immagino la regia come una attività improntata a un duplice principio, maschile e femminile. È indispensabile avere dei forti propositi ma anche aprirsi e rendersi flessibili alla materia che si tratta. E quella umana è certamente una delle più complesse. Mi viene in mente lo scultore Costantino Nivola, che era amico di famiglia, al quale un giorno avevo domandato come si potesse scolpire l’ossidiana e dargli una forma voluta. Nella casa dei miei genitori ce n’erano dei bei pezzi, di un nero intenso e traslucido. Mi disse che la pietra ha un suo carattere e che bisogna rispettarlo. Ecco, mi piace che sul set accada anche qualcosa di imprevisto, che non era nel copione, e che possa tuttavia essere accolto e non solo piegato alla nostra volontà.

Quali sono i tuoi programmi dopo “Su Re”? Come continuerai la tua ricerca sull’immagine?

Ancora non so quale sarà la storia da raccontare nel prossimo film. Ma vorrei che il prossimo film fosse l’occasione per dare seguito alle scoperte che ho fatto realizzando Su Re. Il modo di dirigere gli attori e certe soluzioni di montaggio. E poi il modo di concepire le inquadrature. A me sembra che il cinema sia per certi versi un’arte conservativa. E’ ancorato all’iconografia classica, primi e mezzi primi piani, piani americani, figure sempre ben inquadrate, al centro o di lato, che ritroviamo nella pittura e nella scultura ma che corrispondono solo in parte alla realtà della percezione visiva. Anche se non ce ne rendiamo conto, quella cinematografica è un’iconografia antinaturalistica, simbolica e convenzionale. Io invece vorrei approfondire l’uso di inquadrature e movimenti di macchina che tengano conto del nostro effettivo modo di guardare e di vedere. Esiste un mondo che il cinema deve ancora esplorare e che forse può rivelare aspetti non ancora raccontati della natura umana. 

Le foto in bianco e nero nella gallery sono di Uliano Lucas