Petali di piombo di Davide Piras
- Scritto da Effe_E
Il romanzo che racconta lo spaccato storico vissuto nelle miniere di Montevecchio durante la Seconda guerra mondiale.
Incipit
L’oscurità aveva trascinato con sé un umido penetrante, di quelli che indolenziscono le ossa fino al midollo. Il bosco, muto e tetro, comprimeva i due lati del sentiero. Le cime dei sugheri parevano pendere le une verso le altre, dando vita a un tunnel oscuro di cui non si poteva immaginare la fine. Solo l’impeto di un torrente intaccava il carattere taciturno della notte. Regnava il silenzio solitario dei sordi, acre come il fumo di leccio che si sprigionava dai comignoli di pietra delle case, unica presenza di vita nelle sere invernali di Montevecchio.
«Qui c’è al massimo un metro d’acqua!»
Quella voce vomitata dalla gola sassosa del monte Linas frantumò la quiete. In quell’attimo Emilio imboccò il sentiero, ma non udì l’avvertimento, era ancora distante.
Faceva freddo. Aneliti di vapore si sprigionavano dalla sua bocca, innalzandosi nel buio come segnali di fumo indiani. La tuta da lavoro che indossava era di un tessuto sottile che non poteva sconfiggere l’imminente gelata. Qualche ora dopo gli sarebbe parso di trovarsi disperso in una banchisa. Al risveglio, le campagne sarebbero state di un biancore artico. Solo in apparenza agghindate con abiti natalizi, trafitte in realtà da coltelli di ghiaccio destinati a squarciare l’idea di quel mantello di neve. Talvolta le gelate mattutine erano così consistenti da permettere che la gracilità dei bambini passasse sopra pozzanghere d’acqua senza scalfirne la superficie ghiacciata.
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N.D. | |
1937, Sardegna, miniere di Montevecchio.
La morte accidentale del piccolo Giuseppino Masala segna l’inizio di un’inarrestabile caduta per un paese intero.
In uno spicchio di realtà che commuove, che strazia, tanti personaggi riempiono la vita del villaggio. Emilio, distrutto dal rimorso per la morte di Giuseppino. Pietro, sconvolto dall’epilessia di sua figlia. Ginevra, combattuta tra due amori e minacciata da un pericolo terribile. Lucio, il sordomuto deforme che tutti temono. La potente famiglia Minghetti, la sola a poter decidere in ogni momento la sorte dei pozzi d’estrazione.
Tra scorci di territori stupendi e tradizioni popolari arcaiche, corde di dolore e pena stringono personaggi epici. Un intreccio d’amore e odio capace di spingere l’uomo verso un viaggio introspettivo dal quale è difficile non ritornare cambiati.
Un romanzo corale, uno scarno e musicale Dubliners italiano, la cui ultima nota, a fine volume, risuona in un accordo tra la crudeltà della vita e la possibilità di riscatto.
L’autore, con questo romanzo, ha cercato di raccontare i fatti storici e le vicende di sofferenza che hanno dilaniato i minatori nel glorioso periodo minerario.
Giovanni Davide Piras ha scelto di conservare i nominativi originali di alcuni personaggi esistiti realmente, impregnando così la storia con una forte caratterizzazione territoriale che solo un’isola arcaica e misteriosa come la Sardegna può dare. Tutti gli altri personaggi fanno parte della sua creatività.
In questo gioco solo in apparenza squilibrato, in cui il reale si mescola e si sovrappone continuamente all’immaginario, si cristallizza il perno attorno al quale ruota l’intera trama: la sofferenza di chi ha vissuto a quel tempo nelle miniere. è questo l’aspetto più tangibile di tutto: il rapporto più alto della disperazione umana al quale si dovrebbe far sempre riferimento per misurare la felicità di un’esistenza.
Le descrizioni dettagliate e coinvolgenti, che quasi richiamano alla mente delle fotografie o dei quadri dipinti da artisti talentuosi, sprigionano tutta la meraviglia dei territori sardi, montuosi o marittimi che siano.
I personaggi sono costruiti con maestria e alla fine del romanzo, dopo aver letto l’ultima sillaba, si percepisce quasi un senso di nostalgia verso di essi e, quasi riemergendo dopo un’apnea nell’oceano, viene immediatamente il desiderio d’inabissarsi ancora tra le pagine del libro.